Le bare di Bergamo

C’è una questione che nel libro non abbiamo affrontato, ma avremmo dovuto, perché è uno degli snodi essenziali della narrazione pandemica, nonché uno degli “argomenti” più usati (e più odiosamente, vista la delicatezza del tema) per dare addosso ai cosiddetti “negazionisti”: le bare di Bergamo. Proprio per non abbassarci al livello di chi usa ed ha usato questo tragico episodio con intenti strumentali (dall’una e dall’altra parte della ridicola barricata), ci siamo astenuti dal parlarne; ma abbiamo sentito in questi giorni tirare di nuovo fuori la questione (e, come sempre, in modo funzionale, stavolta per tirare le orecchie alla neo-Presidente del Consiglio), per cui ci siamo decisi a studiarci un po’ sopra. Proponiamo qui le cose che abbiamo capito.
Il fatto è noto, assurto agli onori della cronaca durante l’allucinante e allucinato lockdown italiano del marzo-aprile 2020: nella notte tra il 18 e il 19 marzo 2020 alcuni camion militari, scortati dai Carabinieri, trasportano 65 bare di deceduti a causa del Covid-19 dal cimitero di Bergamo, dove il ritmo delle cremazioni non poteva essere più sostenuto, ad altre strutture crematorie in giro per il Nord Italia; sarà il primo di molti altri, come si può leggere in un equilibrato racconto fatto “a bocce ferme” qualche mese dopo. Vicenda tutto sommato abbastanza semplice e ordinaria, un trasporto di salme che, in tempi normali, sarebbe stata fatta con normali carri o furgoni di agenzie di pompe funebri ma che in quel periodo, per l’alto numero di decessi e per le restrizioni Covid, tali agenzie non erano in grado di svolgere, per cui si decise di utilizzare mezzi e personale militare (come anche in altre occasioni emergenziali si era fatto). Tuttavia l’immagine fa il giro del mondo e contribuisce non poco al diffondersi del panico, non solo in Italia (alcuni esempi, qui e qui); e la vicenda, amplificata dal racconto emozionale dei media (altri esempi qui e qui) e caricata di significati dalla narrazione istituzionale e popolare, diventa ben presto un emblema inossidabile della tragedia che ci ha colpito, a tal punto che la data del 18 marzo sarà addirittura proclamata “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di coronavirus”, celebrata anche nell’anno in corso.
Tuttavia, se si cerca di approcciare l’argomento con uno spirito più laico e meno emozionale (e in tal modo, secondo noi, anche con maggiore rispetto per chi ne ha sofferto), ci si accorge che l’evento è sì emblematico, ma non tanto (o solo) della tragedia, quanto piuttosto della assurdità della nostra risposta alla pandemia, dell’isteria e del panico ai quali ci siamo abbandonati in quel disgraziato frangente, della disorganizzazione e improvvisazione che abbiamo messo in campo in assenza di un adeguato piano pandemico (che dovevamo avere da almeno un decennio e che invece non avevamo).
Per spiegarci partiamo proprio da un Piano Pandemico, ma non il nostro, quello inglese datato 2011 (e vigente allo scoppiare della pandemia di SARS-CoV-2) il quale, sull’argomento della preparazione ad un atteso aumento della mortalità, a pag. 17 afferma quanto segue: “quanto ai decessi, l’analisi rimane che fino al 2,5% delle persone con sintomi morirebbe a causa dell’influenza se nessun trattamento si rivelasse efficace. Ci si potrebbe aspettare che queste cifre vengano ridotte dall’impatto delle contromisure, ma l’efficacia di tale mitigazione non è certa. Tuttavia la combinazione di tassi di attacco particolarmente elevati e una malattia grave è relativamente (anche se non sappiamo quanto) improbabile. Tenendo conto di ciò e della praticabilità dei diversi livelli di risposta, quando si pianificano le morti in eccesso, i pianificatori locali dovrebbero prepararsi ad estendere la capacità su base precauzionale ma ragionevolmente praticabile e mirare a far fronte a un tasso di mortalità della popolazione fino a 210.000 – 315.000 ulteriori decessi, possibilmente in un periodo minimo di 15 settimane e forse la metà di questi in tre settimane al culmine dell’epidemia. Circostanze più estreme richiederebbero che la risposta locale fosse combinata con altri sostegni a livello nazionale.
Sorvoliamo sul fatto che, secondo tale pianificazione, né in Gran Bretagna (che dopo le prime 15 settimane aveva avuto circa 40.000 morti di COVID-19) né in Italia (che nello stesso periodo ne aveva avuti 35.000, con un eccesso totale rispetto alla media degli anni precedenti di 51.000 morti) si sono mai raggiunti i livelli di mortalità in eccesso che, secondo il piano pandemico inglese, ci si potrebbe aspettare ragionevolmente durante un’influenza pandemica per la quale non esistesse trattamento efficace e che provocasse la morte del 2,5% di coloro che la contraggono (è il tasso di letalità che, per il Covid-19, si è attestato ben al di sotto dell’1%). Andiamo invece ad analizzare nel dettaglio i parametri proposti dal piano pandemico inglese (in assenza di un analogo italiano) e confrontiamoli con la situazione verificatasi a Bergamo ed in Lombardia in quei giorni di passione.
Il piano inglese specifica:
1) innanzitutto che la situazione descritta sia da prevedersi (come scrivono P. Stanig e G. Daniele nel loro ottimo Fallimento Lockdown, Ed. Bocconi, 2021 a pag. 18) “sotto l’assunto che alla pandemia si risponda con le misure contenute nel piano. Sono perciò stime del numero dei morti nonostante le misure anti-pandemiche contenute nel piano, non del numero di morti se non si fa niente”;
2) che la pianificazione per questo pur alto livello di mortalità in eccesso va fatta a livello delle istituzioni locali, le quali devono attrezzarsi opportunamente; solo nel caso di “circostanze più estreme” tale azione locale andrebbe supportata da altre azioni a livello nazionale;
3) che questa pianificazione locale deve essere ragionevolmente praticabile e mirata ad affrontare un eccesso complessivo di mortalità di 210-315.000 unità (per un paese di 67 mln di abitanti) nelle prime 15 settimane di pandemia (circa 3 mesi e mezzo, 105 giorni), con la metà di questo eccesso concentrato nelle 3 settimane di culmine; quindi parliamo di un eccesso di 30-45 morti al giorno per milione di abitanti nelle 15 settimane, e di un eccesso di 75-112 morti al giorno per milione di abitanti nelle 3 settimane di culmine. Per la cronaca, questo è lo scenario che, nel piano, si considera ragionevole aspettarsi; quello peggiore, secondo il documento guida del 2008 (basato sull’analisi delle pandemie del XX secolo) che sta alla base della pianificazione pandemica, prevedrebbe di prepararsi ad un eccesso di mortalità di 750.000 morti nelle prime 12-15 settimane (cioè fino a 133 morti al giorno per milione di abitanti e fino a 267 nelle 3 settimane di picco).
Andiamo ora a vedere i dati della Lombardia (10 mln di abitanti), della provincia di Bergamo (1,2 mln) e del comune di Bergamo (0,12 mln), calcolati da noi sulla base dei dati ISTAT e riassunti nelle due seguenti tabelle:

Quindi, se Bergamo e la Lombardia fossero stati rispettivamente una città ed una contea inglesi, anche nel momento peggiore della pandemia si sarebbero ritrovate ben organizzate nel far fronte alla situazione, senza trovarsi nell’incapacità di gestire i servizi cimiteriali, senza dover accumulare le bare, senza dover esportare i defunti per la cremazione, senza trovarsi a corto di personale e strutture tanto da dover mobilitare l’Esercito.

Si deve altresì notare che, tra i principi cardine del piano pandemico inglese, sono contemplati due aspetti considerati basilari ed ineliminabili anche in una situazione di estrema emergenza:

  • i funerali e i servizi cimiteriali devono essere sempre assicurati e con la massima cura (“misure e modalità di lavoro introdotte per gestire il defunto dovrebbero garantire il mantenimento di un adeguato livello di dignità e rispetto; le persone in lutto dovrebbero essere trattate con cura e compassione e i loro desideri per il defunto dovrebbero essere rispettati ove possibile” – Documento Gestire il defunto durante una pandemia, marzo 2020);
  • non si dovrebbe usare il personale militare per gestire attività durante una pandemia (“I piani di resilienza pandemica non dovrebbero (…) presumere che le unità militari locali forniscano supporto o dispongano di personale con le competenze o le attrezzature necessarie per svolgere compiti specialistici. Laddove la capacità civile o la capacità di fornire un servizio essenziale sia superata a causa di una pandemia, e se tutte le altre opzioni per fornirlo sono state esaurite, il Ministero della Difesa tenterà di fornire assistenza attraverso i normali processi, se ha adeguate risorse disponibili”).

Un po’ diverso da quello che abbiamo fatto in Italia in generale e a Bergamo in particolare…

Al termine di tutta questa lunga analisi sorgono, perciò, alcune considerazioni e domande.

La prima è la più semplice e l’abbiamo già evidenziata: è stata l’assenza di un piano pandemico degno di questo nome a farci cadere nel panico e a costringerci, nella generale impreparazione e disorganizzazione, ad adottare soluzioni estreme, non la straordinaria gravità della pandemia. E che tale gravità della situazione possa essere stata anche (almeno in parte) generata dalle nostre azioni sconsiderate è più che un’ipotesi (si pensi ad esempio alla surreale vicenda delle RSA del bergamasco, dove si è verificato oltre il 20% dell’eccesso di mortalità totale del primo semestre 2020, vicenda oggetto di indagini della magistratura e ben raccontata da questo articolo di Altreconomia).

La seconda è che, sebbene sia evidente che su Bergamo c’è stato un impatto di mortalità in eccesso decisamente importante nel mese di marzo 2020, la situazione in Lombardia non è mai stata realmente critica: era impensabile cercare di ridurre il peso sui territori in difficoltà ripartendolo tra i territori limitrofi che soffrivano di meno?

La terza riguarda la cremazione dei cadaveri, per la quale il cimitero di Bergamo ha una capacità di 30 salme al giorno, ben al di sotto delle 150-200 necessarie in quel periodo di picco, di qui la scelta di trasferire le salme presso altri crematori (anche con lunghi viaggi, perché tali strutture non sono così diffuse). La domanda, quindi, sorge spontanea: perché mai si dovevano cremare tutti i morti? Perché non si è cercata la soluzione più semplice, cioè quella di approntare magazzini (di sicuro i capannoni sfitti non mancano nell’industriosa provincia lombarda) per lo stoccaggio delle bare, in attesa della normale sepoltura, anche a settimane di distanza (così come ad esempio previsto esplicitamente nella pianificazione inglese)? E, oltre alle grandi difficoltà gestionali riscontrate, quanto dolore sarebbe stato risparmiato in tal modo alle famiglie dei defunti?

La quarta riguarda la spettacolarizzazione della grave situazione bergamasca. Non vogliamo dire che tale spettacolarizzazione sia stata ricercata o voluta, ma che essa si sia verificata è un fatto e che non si sia avuta abbastanza cura nell’evitarla è altrettanto evidente. Basta guardare i video e le foto apparsi sui media che abbiamo linkato sopra (quello della BBC con la cronaca di Severgnini che dice di “non voler spaventare nessuno” è esemplare): perché organizzare un corteo notturno per le strade deserte? Come si fa a sperare di non essere notati? Perché invece non effettuare i trasferimenti un camion per volta, di giorno, senza le scorte dei Carabinieri (peraltro inutili data l’assenza di traffico) a sottolinearne la straordinarietà? E qualcuno ha avuto anche il coraggio di dire che “organizzammo di sera il primo trasferimento il 18 marzo perché volevamo fare meno clamore possibile”… (ma si legga tutto l’articolo da cui è tratta la citazione, perché è un susseguirsi di racconti agghiaccianti fino all’ultima frase).

La quinta e ultima considerazione è la più elementare di tutte: se una certa delimitata porzione del nostro territorio nazionale si trovava in una situazione di emergenza (e vogliamo prescindere da quanto detto sopra riguardo alle cause praticamente “autoinflitte”), perché mai si è deciso di mettere in lockdown tutto il territorio nazionale (in cui non c’era alcuna emergenza) invece che solo la porzione che se ne sarebbe giovata, producendo in tal modo su larga scala danni di cui non abbiamo ancora piena contezza, senza ottenerne alcun beneficio? Poteva valere l’assurda considerazione che il ministro Speranza propone nel suo libro fantasma Perché guariremo (Feltrinelli, 2020)? Citiamo testualmente da pag. 114: “abbiamo forse sottovalutato l’impatto emotivo di una misura così radicale [il lockdown localizzato alla zona rossa del Nord Italia, disposto il 7 marzo – n.d.r.]. (…) L’impressione di un Paese che si sta spaccando sulla paura del contagio è molto forte. Ci accorgiamo in poche ore che l’unica strada è estendere le misure all’Italia intera. Non si può lasciar pensare agli italiani che ci siano regioni dove ‘si sta meglio’.” Cioè meglio far stare male tutti, invece che solo alcuni, per non fare discriminazioni, in una sorta di “mal comune, mezzo gaudio”? Un vero nonsenso…

Quindi sì, le bare di Bergamo ci interpellano ancora oggi. E le risposte non sono facili (o lo sono troppo).