I NUMERI (agg. 12.11.20)

DELLA PANDEMIA DI SARS-COV-2 E DEL COVID-19 LETTI DALL’UOMO DELLA STRADA

(riflessioni pubblicate il 30 giugno 2020, ultimo aggiornamento parziale del 12 novembreQueste riflessioni sono periodicamente integrate con i dati aggiornati, mano a mano che escono, ma, fino ad oggi, le conclusioni che emergono dai dati non sono mai cambiate sostanzialmente dalla prima edizione del 30/6)

NOTA DEL 27/12: al momento trovo inutile aggiornare questa sezione del blog, visto che i dati sono sostanzialmente consolidati negli andamenti generali e, soprattutto, visto che tutti i danni economici, sociali, psico-fisici, culturali dovuti alla incredibile ignoranza dei numeri di questa pandemia (che qui mi sono sforzato, nel mio piccolo, di combattere) sono ormai fatti e irreversibili… Perciò al momento sto aggiornando, di tanto in tanto, solo la SINTESI di questa sezione, oltre ovviamente alle altre tre sezioni del blog.

INDICE

SINTESI

Riporto qui le risposte sintetiche alle domande di cui sopra (aggiornate al 10/02/21). Chi volesse approfondirne lo studio o capire su che basi affermo quanto qui sintetizzato, può farlo nella lunga (e noiosa, lo so) disamina che comincia di seguito a questa sintesi.

Domanda n. 1 – Quanti sono veramente i contagiati? In Italia si possono ragionevolmente stimare in circa 15 mln. le persone che, a tutt’oggi, sono venute a contatto con il virus (e non 2,6 mln. come rilevato dai tamponi; la stima è suggerita da un’indagine ISTAT e da numerose analoghe indagini fatte in tutto il mondo). Attualmente i positivi “attivi” sono presumibilmente circa 2,5 mln. (ben più dei 414.000 rilevati con i tamponi). Attenzione: questa discrepanza nei numeri è importante, perché mostra che il contagio è fuori controllo da tempo, che i tamponi a tappeto a scopo di tracciamento/contenimento sono inutili (e perciò soldi – molti – buttati e risorse umane sprecate), che il calcolo del famigerato Rt è senza senso e qualunque scelta su di esso basata è inesorabilmente sbagliata.

Domanda n. 2 – Quanto si muore di Covid-19? Stanti i numeri di cui sopra, il tasso di letalità in Italia si aggira attualmente intorno al 0,6% (in discesa) e non il 3,4% calcolato sui postivi rilevati con i tamponi; il tasso di mortalità (che non risente di quest’ultimo problema) è attualmente 0,15% (ovviamente in aumento, rimanendo più o meno costante la popolazione). Attenzione: i tassi sono più bassi di quanto si dica, tuttavia non sono piccoli numeri. Rimane comunque strano che, a livello mondiale, il tasso di letalità sia la metà di quello italiano ed il tasso di mortalità addirittura un quinto…

Domanda n. 3 – Chi muore di Covid-19? Con il Covid-19 muoiono quasi esclusivamente le persone anziane e malate: l’età media dei deceduti è 81 anni (mediana 83). L’età mediana dei deceduti positivi a SARS-CoV-2 è più alta di oltre 30 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (83 anni contro 48 anni). Solo l’1,1% dei morti aveva meno di 50 anni (e meno dello 0,3% non aveva patologie di rilievo pregresse). L’85% dei deceduti aveva almeno altre 2 patologie gravi concomitanti (il 66% ne aveva 3 o più). Perciò si muore di Covid praticamente solo se si è molto anziani e molto malati. Attenzione: Morire “con” Covid non è lo stesso che morire “per” Covid; è una questione aperta, difficile da dirimere, di notevole impatto sui numeri.

Domanda n. 4 – Chi si ammala di COVID-19? Su un campione di 565.000 casi analizzati (tra i positivi al tampone), risulta che tra l’80 ed il 99% (a seconda della fascia d’età) delle persone che contraggono il virus non si accorge neanche di averlo o se la cava con i sintomi lievi di una normale influenza; tuttavia, sapendo che i positivi al tampone sono solo una piccola parte dei contagiati reali (e la restante parte è, ovviamente, asintomatica), possiamo stimare che, mediamente, oltre il 99% dei contagiati non ha sviluppato la malattia o ne ha avuto una forma lieve, che intorno allo 0,9% è andato in ospedale e più o meno lo 0,1% ha avuto bisogno di terapia intensiva. L’ospedalizzazione e la terapia intensiva riguardano in gran parte gli anziani, ma in non oltre il 20% dei casi (dato della fascia più a rischio, cioè 80-89 anni).

Domanda n. 5 – Abbiamo fatto (e stiamo facendo) le scelte giuste in Italia? A giudicare dai dati sopra riportati, direi di no. Le reazioni scomposte e di panico hanno generato – complice una discutibile impostazione di tipo meramente emergenziale ed una supina sottomissione della politica ai comitati tecnico-scientifici – una serie di misure complicate e spesso senza senso, che probabilmente hanno prodotto più danni di quanti vantaggi abbiano effettivamente portato.

Domanda n. 6 – Che succede nel resto del mondo? I dati sono ormai in quantità tale da essere incontrovertibili: almeno 800 mln. (ma forse molti di più) sono stati presumibilmente contagiati (ben oltre i 107 mln. rilevati con i tamponi), con tasso di letalità che si aggira intorno al 0,3% e tasso di mortalità allo 0,03% (simile a quello della influenza asiatica del 1956 e della Hong-Kong del 1968); di tutti i casi attivi (rilevati con i tamponi, quindi con la componente asintomatica pesantemente sottodimensionata), il 99,6% sono senza sintomi o in condizioni leggere (“mild conditions”), mentre lo 0,4% è in condizioni critiche. Attenzione: i dati mostrano il quadro di una malattia abbastanza nella norma, per essere un’influenza piuttosto seria e per la quale non disponevamo di un vaccino in anticipo (come in genere avviene); non si capisce perciò il livello di drammatizzazione della risposta globale, ad un evento non poi così diverso da altri del passato: probabilmente lo spettacolare modello coercitivo cinese ed il singolare panico italiano hanno indotto una reazione isterica un po’ ovunque nel mondo (maggiormente nei paesi di area latina, ma non solo).

PREMESSA

Di virus so molto poco, perciò su questo piano non mi pronuncio (sebbene quel poco che ricordo dell’esame di biologia di quarant’anni fa, qualche domanda me la ponga…). Di conto, tuttavia, ci so fare sin dalle scuole elementari e se c’è una cosa che, della pandemia di SARS-CoV-2 e del COVID-191, non sono mai riuscito a capire sono proprio i numeri.

Mi sono dedicato allo studio dei numeri e, più in generale, dei dati della pandemia perché, come tutti, nel mese di marzo ero spaventato da questo virus apparentemente sconosciuto e, soprattutto, disorientato dai numeri che ci venivano propinati da istituzioni e media e che erano chiaramente privi di senso, anche a agli occhi di un profano: numeri assoluti, spesso citati parzialmente, in genere decontestualizzati e non messi in relazione ad altri dati importanti, senza interpretazioni sensate.

Allora ho cercato le fonti di questi numeri nei siti istituzionali e, se da un lato ho scoperto che molti dati significativi esistono (e sono abbastanza facilmente disponibili), dall’altro ho capito che se volevo cercare di comprendere qualcosa di questa pandemia dovevo cercare di interpretarli da solo, perché né le istituzioni (ISTAT esclusa), né tanto meno i media sembrano accorgersi dell’infondatezza ed incoerenza di ciò che comunicano.

La cosa – di per sé piuttosto preoccupante, per le sue implicazioni (sulla base di dati di fatto insignificanti si sono fatte scelte politiche ed operative) – ha però almeno un lato positivo: anche la mia lettura “da uomo della strada” del fenomeno è legittima, visto che parte da dati istituzionali e di pubblico dominio, e semmai va confutata a partire dagli stessi numeri…

Queste le fonti a cui ho attinto:

Tutti i grafici e tabelle di questo documento sono copiati ed incollati dai report ufficiali degli organismi di cui sopra, tranne che nei pochi casi segnalati (che comunque utilizzano i dati ufficiali degli stessi organismi).

E, prima di cominciare, lo ribadisco: queste sono mie personali riflessioni, di persona ignorante sia di medicina, sia di statistica, sia di epidemiologia; non pretendo di avere argomentazioni inoppugnabili o che possono incrollabilmente reggere al vaglio di esperti nelle varie materie, ma avevo delle domande a cui non trovavo risposte esaurienti nelle spiegazioni dei media e dei loro esperti di turno o nelle dichiarazioni istituzionali, perciò ho cercato le risposte da solo, appuntandomele di volta in volta, per non scordarmene. E questi sono, quindi, solo i miei appunti…

Domanda n. 1 – Quanti sono veramente i contagiati?

Cominciamo col fare un po’ di ordine nella terminologia, perché la confusione regna: intanto, come detto in premessa, una cosa è il virus (SARS-CoV-2), un’altra è la malattia che provoca (COVID-19); vanno poi distinti:

  • i positivi al tampone, che possono essere contagiati o meno (dipende dalla quantità e qualità del virus presente)
  • i contagiati, cioè i positivi infettati dal virus, più o meno malati
  • i malati, cioè contagiati che hanno sviluppato la malattia, più o meno grave

Ad oggi istituzioni e media parlano di “casi”, termine generico che in realtà non spiega nulla (sebbene alluda al “caso clinico” che, come dice la Treccani, è “la concreta realizzazione di una malattia”) o di “contagi”; in entrambi i casi il termine è sbagliato e fuorviante, perché quello che noi possiamo evincere dal tampone2 è solo la positività. E questa è già una prima fonte di confusione per la popolazione.

Comunque, dare solo il numero assoluto dei positivi, come è stato fatto da istituzioni e media sin dall’inizio della pandemia, non ha alcun significato, perché esso dipende da molti fattori, il più “banale” dei quali è la quantità di tamponi che vengono effettuati (è un principio logico basilare, mi pare: più cerco, più trovo…). Allora abbiamo necessità di mettere in relazione il numero dei positivi almeno con la quantità di tamponi che abbiamo effettuato, cosa che per mesi nessuno ha fatto; solo dalla fine di settembre si è cominciato a parlare della percentuale di positivi su tamponi effettuati e, negli ultimi tempi, il dato, che prima solo a fatica si poteva trovare nei siti dedicati di qualche giornale importante, è timidamente comparso anche nei report istituzionali. Non che questo dato ci dica più di tanto, come vedremo, ma intanto qualcosa ci dice e vale la pena di esplorarlo:

Grafico 1 – Mia elaborazione da dati reperiti su 24Lab – Il Sole 24 Ore – 03/11/20

La linea azzurra indica il rapporto percentuale tra il numero di nuovi casi di SARS-CoV-2 (colonne in rosso) e il numero dei tamponi effettuati (colonne in grigio): è il dato che – bontà loro – finalmente anche le istituzioni ed i media mainstream da un po’ hanno cominciato a dare (14% al 2/11). Esso tuttavia non è sufficiente al nostro scopo di capire l’entità della diffusione del contagio nel nostro paese, in quanto il numero dei tamponi totali (colonne in grigio) comprende anche quelli effettuati più volte sulla stessa persona, nonché i tamponi di controllo. Meglio allora considerare il numero delle persone testate (colonne in beige) in relazione ai nuovi casi, il cui rapporto percentuale è dato dalla linea nera.

Questo grafico, in tal modo, ci fornisce almeno una stima sensata della positività rilevata (23% delle persone testate al 2/11), ma ovviamente non ci dice nulla sul contagio reale, perché i tamponi non sono effettuati su un campione rappresentativo della popolazione o almeno su un campione casuale, ma su categorie mirate (peraltro generalmente a rischio). Quindi, nonostante i proclami delle istituzioni preposte e dei media, in tutti questi mesi non ci è stato mai comunicato un dato sensato ed utile per avere un’idea della diffusione reale del virus in Italia ed è ancora oggi sostanzialmente così3.

Tuttavia un paio di considerazioni si possono fare anche a partire dal dato, pur parziale, della positività rilevata: la prima è che sin dalla metà di aprile il rapporto tra positivi e testati è in rapida discesa, fino ad attestarsi sotto l’ 1% per tutta l’estate, perciò, a quanto pare, dal 4/5 (fine del lockdown generale – tasso al 4%) si poteva passare direttamente alla riapertura totale e alla ripresa della vita normale, invece che alla Fase 2; ma è soprattutto la lunghissima Fase 3 ad essere stata sostanzialmente priva di senso, finanche dal punto di vista di chi puntava al contenimento dei contagi (di cui comunque, come detto, non abbiamo mai avuto dati realistici), tanto meno per chi – come me – ritiene più rilevante focalizzarsi sui dati della malattia e della gravità delle sue conseguenze (se ne parlerà più avanti). La seconda considerazione è invece più generale: il fatto che l’unico dato minimamente sensato sui contagi (cioè numero di nuovi positivi su tamponi effettuati) sia stato per lungo tempo del tutto assente nei report dei due principali propinatori istituzionali di dati (ISS e Protezione Civile, compresi i ben noti bollettini di guerra giornalieri in tv) e nella sezione Covid del sito del Governo, nonché nelle sintesi dei media, mentre venivano comunicati i soli dati assoluti, ha sicuramente ingenerato nella popolazione uno stato di terrore irragionevole, i cui riverberi sono ancora pesantemente presenti anche nella vulgata attuale sulla pandemia. Ma anche di questo parleremo più avanti.

Una svolta nel senso della chiarezza sulle dimensioni reali del contagio e della malattia in Italia è però finalmente arrivata il 3 agosto 2020, grazie alla pubblicazione di un report preliminare dell’ “Indagine di sieroprevalenza sul SARS-CoV-2” dell’ISTAT, questa sì effettuata su un campione significativo4.

Perciò, dopo 5 mesi dall’inizio dei report sulla pandemia, abbiamo avuto una prima risposta alla domanda n. 1: al luglio 2020, i contagiati dal virus in Italia erano quasi 1,5 milioni, pari al 2,5% della popolazione.5 Si noti che, nello stesso mese di luglio 2020 il totale cumulativo dei positivi rilevati dai tamponi era di circa 243.000, meno di 1/6 di quelli reali6.

Sempre dall’indagine ISTAT traiamo anche il grafico seguente, che mostra il dettaglio della diffusione territoriale del virus:

Grafico 2 – Fonte: ISTAT 3/8/20

Da questi dati desumiamo che:

  • il virus SARS-CoV-2 circola nel nostro paese da più tempo di quello che pensavamo7;
  • il virus è molto più diffuso di quello che pensavamo (6 volte di più di quanto avevamo rilevato con i tamponi nello stesso periodo; addirittura, come si dirà più avanti, stime OMS ad oggi ritengono che, nel mondo, almeno il 10% della popolazione sia stato contagiato, ben 24 volte di più rispetto a quanto proclamano istituzioni e media qui da noi)8;
  • la diffusione presenta notevoli differenze territoriali, con tutto il centro-sud ampiamente al di sotto della media nazionale;
  • il virus è comunque relativamente poco diffuso nel nostro paese, presumibilmente grazie alle misure di contenimento adottate ed al lockdown “duro” applicato su tutto il territorio nazionale;
  • siamo ben lontani dalla cosiddetta “immunità di gregge”9 o almeno da una diffusione marcata tra la popolazione meno sensibile per avere una consistente platea di immuni in vista del prossimo inverno, avendo noi cercato di inibire la circolazione del virus anche nella stagione calda (quando le complicanze sono naturalmente meno presenti).

Perciò, al momento attuale (8/11) possiamo ragionevolmente stimare in almeno 6 milioni le persone che sono state contagiate in Italia (avendo sviluppato o meno la malattia) e non 935.000 come ancora ci si ostina ad affermare nei report istituzionali. E, come vedremo, questo dato è da tenere ben presente, perché è un punto dirimente per tutte le valutazioni che si faranno in seguito.

Domanda n. 2 – Quanto si muore di Covid-19?

La risposta è il tasso di letalità (cioè il rapporto tra morti e contagiati). Purtroppo però si tratta di un altro dato che, in corso di epidemia, è difficile calcolare: infatti, mentre conosciamo con un’approssimazione accettabile il numeratore (i morti), non conosciamo affatto il denominatore, non avendo il numero (o una stima) dei contagiati reali, ma solo dei positivi rilevati con i tamponi (con le distorsioni sopra dette).

Comunque, l’Istituto Superiore di Sanità questi calcoli li fa e li propone periodicamente nei suoi report:

Grafico 3 – Fonte: Lab24 su dati ISS (consultato 08/11/20)

Per quanto sopra detto, tuttavia, il tasso di circa il 10,1% che si ottiene dal rapporto morti/tamponi positivi, non ha alcun significato, sebbene questo calcolo sia ancora oggi quello considerato dalle istituzioni preposte, poco importa se esso è comunque in costante discesa all’aumentare dei tamponi effettuati (cosa che ne conferma ulteriormente la sostanziale inattendibilità). Non si capisce perché, infatti, a tutt’oggi il dato (certamente più attendibile) fornito da un’altra fonte istituzionale, cioè l’ISTAT, sia del tutto ignorato da ISS e Ministero della Salute10.

Comunque, grazie ai risultati dell’indagine ISTAT (e non al numero derivante dai tamponi effettuati), una prima risposta parziale alla domanda n. 2 è che, in Italia, al 15/7 sono morti con (ma, come vedremo, non necessariamente per) COVID-19 circa il 2,4% di quelli che hanno contratto il virus SARS-CoV-2, una percentuale non piccola, ma ben lontana dall’allarmante 14,4% di cui parlava l’ISS alla stessa data (e anche dal 10,1% al 27/10 del grafico qui sopra)11.

E, volendoci spingere oltre, possiamo ragionevolmente affermare che, stimando i contagi totali a partire dai dati ISTAT e dalle stime OMS sopra citati, ad oggi (8/11) il tasso di letalità del COVID-19 in Italia si attesterebbe intorno allo 0,7% circa, che è comunque rilevante, ma incomparabilmente più basso di quanto le nostre istituzioni sanitarie ci comunichino.

Il grafico percentuale sopra riportato, tralasciando la fuorviante colonna della letalità, ci può comunque dare un’idea per così dire “qualitativa” della situazione, che appare non dissimile a quella creata da altre infezioni virali come ad es. l’influenza stagionale: muoiono principalmente anziani sopra i 70 anni (87,8%) ed il numero di persone che muoiono sotto i 50 anni è percentualmente irrilevante (intorno all’1%).12

Di qui la terza domanda.

Domanda n. 3 – Chi muore di Covid-19?

Ci vengono in aiuto i grafici che seguono (con le spiegazioni della stessa ISS), i quali confermano quanto appena detto.

Grafico 4 – Fonte: ISS – Report 28/10/20
Grafico 5 – Mia elaborazione dai dati ISS del 28/10/20

Quindi la risposta alla domanda n. 3 è:

  • muoiono principalmente persone anziane (almeno la metà dei deceduti ha oltre 82 anni e la media è di 80 anni, a conferma dell’irrilevanza percentuale dei morti sotto i 50 anni);
  • muoiono principalmente persone con molteplici patologie concomitanti (oltre l’80% dei morti aveva almeno 2 patologie gravi) e in questo, il Covid-19 non sembra comportarsi diversamente da altre infezioni virali con cui conviviamo da sempre senza fare troppe storie, come l’influenza stagionale o l’HIV (che però uccide principalmente giovani), solo per fare due esempi a tutti noti.13

A metà luglio è uscita sui giornali la notizia che “9 morti su 10 sono deceduti a causa del covid-19”, dato che sembrerebbe confutare quanto appena detto. In effetti si tratta di una sintesi giornalistica grossolana, estrapolata in modo spregiudicato da un rapporto ISTAT-ISS14, il quale in realtà dice che, dall’analisi di circa 5.000 (su 35.000) rapporti di morte redatti dai medici curanti, risulta che, nell’89% dei morti positivi al SARS-CoV-2, il COVID-19 è da considerarsi la causa iniziale, cioè “la causa che ha avviato la sequenza di eventi morbosi che hanno condotto al decesso” (secondo i criteri definiti dall’OMS), senza la quale, cioè, il decesso non si sarebbe verificato. E’ tuttavia altrettanto vero che nel 72% dei casi si sono verificate delle “concause di decesso preesistenti a COVID-19” cioè “malattie, traumatismi o circostanze esterne che hanno avviato sequenze di eventi morbosi indipendenti tra loro o che hanno contribuito al decesso aggravando le condizioni del paziente o il decorso della malattia” essendo pertanto “cause rilevanti e corresponsabili del decesso”: possiamo perciò dire che anche senza il COVID-19 queste persone sarebbero probabilmente decedute, sia pure in tempi diversi. Infatti “l’aumento della sopravvivenza della popolazione italiana, grazie alla riduzione dei livelli di mortalità a tutte le fasi della vita, ha fatto sì che oggi molti individui, soprattutto nelle età più avanzate, convivano con diverse malattie croniche. Pertanto, il decesso rappresenta spesso il risultato della concomitanza ed interazione di diverse malattie. Inoltre, la presenza di malattie croniche conferisce una vulnerabilità ed un aumentato rischio di mortalità in caso di eventi intercorrenti, come ad esempio le infezioni”. Quindi il nuovo rapporto non contraddice affatto i dati precedenti15.

Domanda n. 4 – Chi si ammala di COVID-19?

Qui la questione è complicata soprattutto da una perniciosa ambiguità costantemente reiterata – esplicitamente o meno non importa – dal sistema di comunicazione ufficiale e dei media (positivi=malati) che, come più sotto vedremo, è completamente errata. Ma andiamo con ordine.

L’indagine sierologica ISTAT ha rilevato la seguente ripartizione del contagio SARS-CoV-2 per sesso ed età:

Grafico 6 – Fonte: ISTAT 3/8/20

La positività al SARS-CoV-2 è quindi equamente diffusa tra uomini e donne ed abbastanza equamente distribuita nelle diverse fasce d’età.

Raggruppando questi dati in un grafico a torta simile a quello che viene periodicamente diffuso da ISS, possiamo notare che il virus SARS-CoV-2 contagia di fatto tutte le fasce d’età; segnatamente, quasi la metà dei contagiati ha meno di 50 anni, ma abbiamo già visto che solo lo 0,9% dei morti appartiene a questa fascia d’età, mentre l’87,8% dei morti riguarda la fascia sopra i 70 anni, la quale però costituisce solo il 18,7% dei contagiati.

Grafico 7 – Mia elaborazione dai dati del rapporto ISTAT 3/8/20

Quindi SARS-CoV-2 non contagia solo gli anziani, ma anzi contagia soprattutto i giovani; tuttavia sono gli anziani che possono avere le conseguenze più gravi.

Ad ulteriore riprova di ciò, i dati ISS (pur se parziali, come abbiamo visto all’inizio, perché basati sui risultati dei tamponi) ci dicono che l’età mediana dei positivi (al 28/10) è di 51 anni16, mentre sappiamo che l’età mediana dei morti è 82 anni, con una differenza di ben 31 anni.

Ma qui è d’obbligo fare un passo in più, per capire ciò che effettivamente ci ha colpito in questi mesi.

Grafico 8 – Fonte: ISTAT 3/8/20

L’indagine ISTAT (grafico qui sopra) certifica che quasi il 30% dei contagiati nel nostro paese è completamente asintomatico17. E qui si vede, quindi, la fondamentale distinzione tra contagiati (tutta la torta) ed i malati (solo i settori grigio e blu scuro).

Ma il seguente grafico preso dal sito dell’ISS è ancora più interessante:

Grafico 9 – Fonte: ISS 10/11/20

Questo grafico mostra le differenze nello stato clinico dei soggetti nelle varie fasce d’età, evidenziando che le conseguenze più gravi (stato clinico severo, con necessità di ospedalizzazione, e critico, con ricovero in terapia intensiva) occorrono maggiormente nella popolazione più anziana, fornendo così una prima risposta alla domanda n. 4: il virus può contagiare tutti, ma rischiano di ammalarsi gravemente soprattutto i più anziani (con percentuali che vanno dal 10% dei 50enni al 25% degli 80enni; sotto i 50 anni abbiamo percentuali molto più basse).

Tuttavia il grafico, oltre a mostrare con chiarezza la differenza, che abbiamo già rilevato, tra contagiati (tutti) e malati (solo le quote in giallo, arancio e rosso), evidenzia anche che, non solo dal 50 al 75% dei contagiati (a seconda della fascia d’età) non sviluppa la malattia, ma addirittura arriviamo a percentuali fino all’80% se agli asintomatici aggiungiamo quelli che sviluppano una malattia insignificante (i paucisintomatici) ed a percentuali tra oltre il 75 ed il 100% se ci aggiungiamo anche i malati con sintomi lievi (come quelli di una semplice influenza). Si noti anche che la percentuale di condizioni severe e critiche diminuisce nella fascia d’età da 90 anni in su: questo si spiega probabilmente (ma è solo una mia congettura) col fatto che gli individui che raggiungono in salute un’età elevata, hanno una fibra fisica più forte degli altri e ciò potrebbe avvalorare ulteriormente la tesi che uno stato di fragilità della persona è condicio sine qua non per gli esiti più infausti della malattia.

Inoltre, i dati di questo secondo grafico, pur se raccolti sulla platea dei tamponi (che, come più volte detto, non costituisce un campione rappresentativo della popolazione) e pur originando da una differente modalità di rilevazione (cfr. nota 7), tuttavia sono di estremo interesse per due validi motivi.

Il primo è che questi dati sono ormai in quantità significativa, essendo relativi a circa 434.000 dei 960.000 positivi rilevati con i tamponi alla data del 10/11, perciò se anche il campione non è selezionato con criteri statistici, l’alta numerosità ne mitiga le distorsioni; perciò possiamo considerare i dati di questo grafico come abbastanza attendibili nel descrivere le conseguenze, sotto il profilo clinico, dell’infezione da SARS-CoV-2 nella popolazione.

Il secondo è che la grande differenza di numerosità tra i positivi rilevati con i tamponi e la stima di persone che complessivamente hanno avuto il virus in Italia ipotizzabile a partire dai dati dell’indagine sierologica Istat (6 volte il numero dei tamponi positivi), suggerisce che anche in questo momento vi sia un gran numero di asintomatici e paucisintomatici non censiti (essendo principalmente questi i soggetti che sfuggono al tracciamento con i tamponi) e che, se lo fossero, farebbero aumentare di gran lunga le sezioni verde e blu del grafico, riducendo perciò ulteriormente l’incidenza della malattia sintomatica nella popolazione.

La risposta alla domanda n. 4, quindi, si precisa ulteriormente: il virus può contagiare tutti, ma solo una piccola parte dei contagiati si ammala con sintomi e, di questi, si ammalano gravemente, tanto da aver bisogno di ricovero, quasi esclusivamente soggetti tra i più anziani e/o fragili.

Questi dati, infine, suggeriscono anche una riflessione più generale: c’è una differenza sostanziale tra positivi al SARS-CoV-2 e malati di COVID-19 e ragionare (e prendere decisioni) solo sui primi, come abbiamo fatto in questi mesi (e continuiamo a fare), è evidentemente fuorviante.

Se infatti si considera il dato delle conseguenze cliniche del contrarre il virus, ci accorgiamo (grazie soprattutto all’ampiezza dei numeri che oggi abbiamo a disposizione) che, da alcuni mesi in qua, il rapporto tra soggetti asintomatici o con sintomi lievi e soggetti che debbono essere ospedalizzati e/o ricoverati in terapia intensiva, è sostanzialmente costante (rispettivamente al 94%, 5,5% e 0,5%):

Grafico 10 – Fonte: Lab24 – Il Sole 24 ore (5/11/20)

Insomma, l’andamento della positività ai tamponi che al momento costituisce la cosiddetta “curva epidemica” (ma abbiamo già visto come di fatto questi numeri siano fortemente sottodimensionati, perciò poco affidabili), sebbene possa essere utile da analizzare per i modelli matematici degli epidemiologi, tuttavia, se non si considerano anche i dati sulle conseguenze cliniche del virus sulle persone contagiate, diventa privo di senso concreto sia per la popolazione (a cui dovrebbe interessare sapere se starà male o, peggio, se morirà e non se è positiva al tampone), sia per il decisore politico, che deve prendere determinazioni concrete per il bene complessivo della collettività e non solo (né principalmente) per gli aspetti sanitari, nell’ambito dei quali deve saper scegliere quelli più rilevanti senza danneggiare gli altri aspetti della vita dei cittadini.

E, in effetti, a questo punto il sospetto che il decisore politico abbia operato (e purtroppo operi anche oggi) le sue scelte sulla base di valutazioni poco sensate, non sembra così peregrino… E fa sorgere un’ulteriore domanda.

Domanda n. 5 – Abbiamo fatto (e stiamo facendo) le scelte giuste in Italia?

In Italia, come del resto è avvenuto in molta parte del mondo, abbiamo affrontato questa pandemia come un’emergenza epocale, mettendo in atto interventi senza precedenti, con impatti pesantissimi sulla vita delle persone. E non abbiamo ancora finito (la cosiddetta “seconda ondata” è in corso), perciò vale la pena di evidenziare sin da subito i punti di forza e le criticità che emergono dai dati raccolti fino ad oggi, senza aspettare “l’ardua sentenza” dei posteri (che comunque un giorno necessariamente arriverà).

Da noi, l’impatto della pandemia di un virus sostanzialmente sconosciuto ma di cui dalla Cina ci giungevano notizie drammatiche, non ha permesso un approccio razionale e pragmatico, ma si è avuto un susseguirsi di provvedimenti, decisioni e azioni precipitoso e spesso incoerente, sia a livello centrale che locale; in tal modo, in alcune zone del paese, il contagio è andato presto fuori controllo ed il sistema sanitario è andato in tilt, anche per l’oggettiva difficoltà di definire adeguati protocolli terapeutici in relazione ad una patologia a quel momento sconosciuta. Con decisioni del 9/3 e dell’11/3 si è perciò adottato il doloroso provvedimento di lockdown duro ed esteso a tutto il territorio nazionale (con lo scopo di ridurre i contagi e allentare la pressione sul sistema sanitario, almeno in alcune zone), fino al 4/5 quando è cominciata la Fase 2 (con parziale ridimensionamento delle misure e alcune riaperture di attività), conclusasi l’11/6 per dar luogo alla Fase 3, caratterizzata da ulteriori riaperture e da un progressivo incremento dell’attività di tracciamento a mezzo di tamponi. Con l’arrivo dell’autunno si è assistito ad una ripresa della dinamica dei contagi (questa volta più diffusa a livello nazionale), con nuova pressione sui servizi sanitari, cui si è risposto dapprima col potenziamento del tracciamento, poi di nuovo con progressivi lockdown, stavolta territoriali (almeno per il momento).

In questa intricata situazione le domande a cui ho dovuto cercare risposta, in realtà sono più di una e stavolta le risposte non sono facili. Andiamo con ordine. La prima questione è quella del lockdown di marzo-aprile: è fuori di dubbio che esso sia stato utile per ridurre il peso sui servizi sanitari in alcune zone d’Italia (tra le più popolate) che risultavano ad alta diffusione del virus; ma la durata della misura (quasi due mesi) e l’estensione a tutti il territorio nazionale sono stati una buona scelta? C’erano le basi per un provvedimento del genere, anche in considerazione dell’enorme costo in termini economici e sociali che esso ha comportato?

Una prima considerazione sulle implicazioni di questa scelta emerge da questo grafico, in cui l’ISTAT cerca di spiegare l’incremento di mortalità del 2020 (linee blu) rispetto ai dati degli stessi periodi nel quinquennio 2015-2019.18

Grafico 11 – Fonte: ISTAT 4/6/20

Tale incremento è infatti solo in parte spiegato dalle morti con COVID-19 (linee gialle). Di fatto la restante parte dell’eccesso di morti non si spiega, se non come mortalità COVID non rilevata o mortalità indiretta causata dalla crisi del sistema ospedaliero.

È interessante notare che l’andamento della curva delle linee blu (eccesso di morti) è sostanzialmente uguale nei due grafici (maschi e femmine), mentre non lo è quella gialla (in quanto di COVID muoiono più maschi che femmine). A mio parere – ma è solo una mia ipotesi, che avrebbe bisogno di ulteriori dati a supporto – queste curve suggeriscono che tante persone siano morte perché non ci si è occupati di loro, preoccupati come eravamo soprattutto per i malati COVID, o perché semplicemente non sono andate in ospedale per paura di contagiarsi e/o per rispondere agli appelli delle autorità che in quei giorni esortavano a non recarsi negli ospedali se non per motivi urgenti (e mentre i giornali titolavano con eccessiva semplificazione, creando ulteriore confusione).19 Non si può tuttavia ragionevolmente concludere che, per quanto suggestiva, questa sia l’unica spiegazione del surplus di morti; da un interessante studio (pure se di qualche mese fa) risulta, infatti, più plausibile uno scenario in cui “l’epidemia abbia provocato sia un elevato numeri di morti indirette, sia un elevato numero di decessi dovuti al Covid-19 che non sono stati certificati tali. La percentuale delle morti indirette rispetto a tutte quelle in eccesso varia in Lombardia tra il 20% e il 35%, mentre in Emilia-Romagna tra il 20% e il 30%, quindi il risultato sembra robusto e dirci che circa un terzo dei decessi sono ‘danni collaterali’ dell’epidemia. La percentuale delle morti Covid non certificate rispetto al totale dei decessi dovuti al virus varia in Lombardia tra il 15% e il 30%, mentre in Emilia-Romagna varia tra il 10% e il 22%. Anche questo risultato sembra ragionevole, sulla base dell’osservazione che nelle zone piú colpite dall’epidemia i decessi Covid che non si è riusciti a certificare con il tampone sono in percentuale maggiore.”20

La tendenza si inverte dopo il 20/4, secondo l’ISTAT, per la riduzione (favorita dal lockdown) della pressione sul sistema sanitario e/o per il miglioramento della sua performance, nonché per il cosiddetto “effetto harvesting” (un’anticipazione di decessi che sarebbero comunque avvenuti nel breve periodo, mentre successivamente si assiste a una diminuzione della mortalità, dato che i più fragili sono già morti).

La questione è confermata nel rapporto ISTAT del 9/7:

Grafico 12 – Fonte: ISTAT 9/7/20

Come si può vedere il tasso di mortalità generale in Italia nel 2020, rispetto allo stesso periodo nel quinquennio 2015-19, era in diminuzione a gennaio e febbraio mentre si impenna a marzo ed aprile, per poi tornare negativo a maggio. Già sappiamo dal grafico precedente che tale impennata non è solo motivata dai morti Covid (comunque rilevanti), tuttavia questa tabella ci dice di più e cioè che tale andamento anomalo non si è verificato solo nelle zone ad alta diffusione di COVID-19 (dove il surplus potrebbe essere in gran parte costituito, come abbiamo visto, da morti COVID non diagnosticati), ma anche nelle altre zone d’Italia meno colpite dalla pandemia; in queste zone a media o bassa diffusione, dove quindi l’incidenza dei morti per COVID-19 è enormemente più bassa, l’inversione di tendenza rispetto al gennaio-febbraio può, a mio parere, spiegarsi solo come mortalità indiretta per altre malattie o condizioni non connesse alla pandemia, ma che, a causa di quest’ultima, sono state trascurate.

Quindi, nei primi 4 mesi dell’anno:

  • è morta molta più gente degli scorsi anni;
  • non sono solo i morti Covid “ufficiali” a costituire questo surplus;
  • vi sono stati morti Covid non computati nelle cifre ufficiali,
  • ma molti sono morti di patologie diverse dal Covid perché non hanno ricevuto o non hanno richiesto le cure necessarie
  • e ciò è avvenuto non solo dove c’era un’alta diffusione di COVID-19, ma in tutta Italia, e soprattutto laddove non vi era alcuna emergenza sanitaria.

Un altra considerazione sul lockdown e sulle fasi 2-3 va fatta riprendendo il grafico 1 (già incontrato alla domanda n.1):

Come si può vedere, il tasso di positività ai tamponi (linea azzurra) non ha mai superato il 30%, neanche nella fase di massima emergenza (quando i tamponi disponibili erano pochi e si facevano solo ai sintomatici), mentre all’aumentare dei tamponi effettuati il tasso è sceso sotto il 15% già dai primi di aprile e sotto il 10% da metà aprile, fino ad arrivare, nel mese successivo, addirittura sotto l’1%, dove si è stabilizzato per un lungo periodo, fino ad agosto quando, a seguito di una nuova massiccia campagna di test, il tasso ha intrapreso una lenta risalita; la ripresa della scuola, delle attività e dei trasporti, nonché l’inizio della stagione più fredda hanno coinciso con l’aumento (atteso) della curva dei contagi ed una ripresa della malattia con ricovero in ospedale, sebbene, come si vede perfettamente dal grafico qui sotto, le due curve hanno una forma completamente diversa (la terza, quella delle terapie intensive, è al momento invisibile21 ).

Grafico 13 – Fonte: Lab24 – Il Sole 24 Ore (05/11/20)

Stando ai numeri, sembrerebbe perciò che il lockdown poteva essere mitigato già da aprile e, comunque, dal 4/5 (fine del lockdown generale) si poteva passare direttamente alla riapertura totale e alla ripresa della vita normale, invece che alla Fase 2 e alla Fase 3, le quali hanno inutilmente acuito le problematiche della cittadinanza, senza che ciò fosse supportato dai dati. Anzi, proprio la scelta di contenere i contagi (soprattutto dei bambini e dei giovani, che, lo sappiamo dai dati, non rischiano niente) anche durante il periodo estivo, quando cioè le possibilità di complicanze da COVID-19 erano più contenute anche per le fasce più a rischio, è stata poco sensata: in particolare i bambini e giovani si sarebbero infatti immunizzati almeno per qualche mese, rendendo meno delicata la fase di rientro a scuola e riducendo il rischio di contagio intrafamiliare (che è il più importante meccanismo di diffusione del virus, almeno qui da noi) e comunque un aumento consistente degli immunizzati avrebbe migliorato complessivamente la situazione in autunno.

Ne concludiamo che, se la strategia di lockdown (al netto della comunicazione terroristica di istituzioni e media, ma ne parleremo più avanti) ha avuto un’indubbia utilità per alleviare la pressione sugli ospedali in difficoltà, invece, almeno dal punto di vista del contenimento dei morti, essa non sembra aver pagato. Appare inoltre chiaro che applicare indistintamente lo stato di emergenza ed il lockdown a tutto il territorio nazionale non sembra solo essere stato inutile, ma addirittura deleterio. Infine, la fase 2 e la fase 3 appaiono prive di senso e non supportate dai dati, essendo state irrilevanti per il contenimento (di numeri irrisori) e per i servizi sanitari (che non erano più in difficoltà), ma avendo acuito inutilmente i problemi economici e sociali ed impedito la parziale immunizzazione della popolazione, cosa che poteva tornare utile nel periodo autunnale.

La seconda questione è quella del “dogma” del tracciamento e del contenimento. Su questo obiettivo si è concentrata l’azione soprattutto dal mese di agosto in poi, con un incremento sostanzioso dei tamponi effettuati ed una grande profusione di risorse umane e materiali. Era (ed è) un obiettivo sensato? È concretamente realizzabile il tracciamento, a questo punto della pandemia? Il contenimento della diffusione del virus è possibile? E, soprattutto, tracciamento e contenimento servono davvero?

Stavolta la questione è abbastanza chiara: dati i numeri che l’indagine di sieroprevalenza dell’ISTAT e le stime OMS ci suggeriscono, cioè che probabilmente vi siano milioni di persone in Italia che hanno contratto il SARS-CoV-2 (ma anche se davvero fossero solo 573.000 i “casi” attivi di oggi, 8/11) è assolutamente evidente che tracciare e contenere a livello di tutta la popolazione è ormai da tempo impossibile e la strategia dei tamponi a tappeto è del tutto inutile. Le uniche possibili attività di tracciamento e contenimento che si possono attuare sono quelle relative a singoli cluster, in luoghi ben delimitati (ad es. RSA, carceri, conventi…) e gli unici tamponi che ormai ha senso fare sono quelli diagnostici, per le persone che hanno sintomi. Anche perché – vale la pena ricordarlo – siamo in presenza di un virus a letalità molto bassa e ben delimitata a precise tipologie di soggetti, che provoca una malattia lieve o del tutto asintomatica nel 96% dei casi: se anche perdiamo il controllo del tracciamento, non sembra un grosso problema… Appare perciò insensato continuare a spendere tempo e risorse in questa onerosissima attività di screening generalizzato (forse utile ormai solo agli studi dei virologi e degli epidemiologi), mentre sembrerebbe più logico investire nelle attività di diagnosi e cura, sia sul territorio (dove la maggior parte dei malati di COVID-19 possono essere tranquillamente curati), sia a livello ospedaliero.

Ma il dogma del tracciare e contenere, in luogo di preparare e predisporre per la cura, è stato ancora più insensato (e deleterio) nei mesi scorsi. Abbiamo già visto come aver impiegato l’estate in queste attività sia stato del tutto inutile (le percentuali dei positivi rilevati erano irrisorie) ed anche miope (abbiamo perso l’occasione di lasciar circolare il virus in un periodo caldo e di far immunizzare larga parte della popolazione, soprattutto infantile e giovanile, cosa che ci avrebbe aiutato, almeno all’inizio, nei mesi freddi); ma ci voleva poi tanto a capire che si trattava di uno spreco di tempo e risorse, dato che l’andamento stagionale avrebbe fatto ripresentare le problematiche di cura di lì a pochi mesi? A giudicare da questo grafico sull’andamento stagionale della mortalità che lo stesso ISS pubblica settimanalmente22, sembrerebbe che attendersi una ripresa della mortalità nei mesi invernali in corrispondenza di eventi influenzali non fosse così peregrino:

Grafico 14 – Fonte: ISS (27/10/20)

Perciò forse prepararsi all’impatto durante i mesi estivi non sarebbe stata una cattiva idea, piuttosto che cercare di divinare, con la campagna di tracciamento, l’inevitabile aumento del numero dei contagi.

La terza questione (collegata alla precedente) è quella dei provvedimenti per la cosiddetta “seconda ondata”. Stiamo facendo tesoro delle esperienze della “prima onda”? Ci siamo preparati adeguatamente? Stiamo facendo scelte razionali basate sui dati (ormai in quantità tali da darci un quadro consolidato della pandemia)?

Purtroppo la risposta è NO, su tutta la linea. Come detto, una volta fuori dalla prima emergenza ci siamo concentrati su tracciamenti e contenimenti di SARS-CoV-2 (quando già sapevamo dall’ISTAT che il fenomeno aveva già ben altri numeri rispetto ai nostri tamponi) e non ci siamo preparati ad affrontare il ritorno (scontato) del COVID-19 organizzando la medicina di territorio (questa sì in grado di contenere l’impatto sugli ospedali)23, veicolando informazioni finalmente corrette alla popolazione (anche questo avrebbe ridotto la corsa isterica al pronto soccorso a cui stiamo assistendo in questi giorni, come a marzo)24, approntando adeguati piani di potenziamento delle risposte ospedaliere (in termini sia di ricovero ordinario che di terapia intensiva). E proprio l’errore della mancata pianificazione che ci ha rovinati a marzo25 lo abbiamo pari pari ripetuto in vista della “seconda ondata” (la vicenda calabrese è emblematica, ma anche nella piccola Umbria non siamo da meno); e, sebbene, per quanto sopra diffusamente detto, sia di tutta evidenza che la diffusione dei contagi è pressoché ininfluente sugli esiti della gestione della malattia, ancora oggi puntiamo su tracciamento e contenimento (fino ad arrivare al nuovo lockdown, con le sue devastazioni) piuttosto che sulla risposta di cura (di una malattia che ormai sappiamo affrontare e che fa sempre meno danni). E continuare a dare la colpa ai giovani che “uccidono” i nonni perché vanno a scuola o escono la sera è, oltre che falso, indecoroso: altro che patto generazionale26

Quindi la risposta alla pandemia che, ancora una volta, ci ritroviamo a dare anche in questa seconda ondata è quella del lockdown27, cioè la peggiore possibile e, in un certo senso, la più semplice: lo scopo è di nuovo quello alleggerire la pressione sui servizi sanitari, cioè la parte del nostro “sistema” di risposta alla pandemia che più aveva sofferto nella fase 1 e che abbiamo avuto tempo di potenziare e razionalizzare per 5 mesi (maggio-settembre) ma non l’abbiamo fatto, preferendo concentrarci sulla proverbiale chiusura della stalla dopo la fuga dei buoi, cioè su tracciamento e contenimento (ricordiamoci le surreali mascherine in spiaggia o l’assurdità – costosissima – dei banchi scolastici monoposto o i tamponi ai vacanzieri, solo per fare qualche luminoso esempio) quando già dai primi di agosto, con il pre-rapporto dell’indagine ISTAT, sapevamo che il controllo del contagio a tutto campo era abbondantemente sfuggito di mano. Ma attenzione: accanto al (probabilmente ormai giusto, purtroppo) scopo di alleggerimento di cui sopra, in molti ancora insistono sull’obiettivo del tracciamento e contenimento generale; nella conferenza dell’ISS del 30 ottobre, un’affermazione fatta en passant dal Presidente Silvio Brusaferro, mi pare, a questo proposito, molto chiara: “Il tracciamento rimane il nostro obiettivo, per riportarlo completamente sotto controllo dobbiamo abbassare la curva (…) ridurre il numero dei casi e quindi piegare la curva; piegando la curva riacquistiamo la capacità di tracciare tutti”. Ecco qui, il corto circuito continua.

Comunque, sorvolando sulle implicazioni sociali, economiche, psicologiche, formative, culturali, ecc. del lockdown, mi limito ad osservare che, dei 21 indicatori utilizzati dal Ministero della Salute per definire l’appartenenza di una regione ad una delle 3 aree di rischio (gialla, arancio, rossa), come previsto dal DPCM 3/11/20, almeno 9 sono basati su dati derivati dal solito “numero di casi” di cui ben sappiamo i limiti28; in particolare, il famigerato Rt (numero di riproduzione base “equivalente a (…) R0, con la differenza che Rt viene calcolato nel corso del tempo”, come recitano le spiegazioni sul sito ISS), di cui tutti parlano come il numero magico in grado di predire la catastrofe, soffre – e grandemente, viste le dimensioni delle positività non censite – della stessa distorsione29.

E, infine, vi è una quarta, spinosa e trasversale questione: quella della comunicazione. Come abbiamo abbondantemente dimostrato, la lettura approfondita dei dati disponibili e, soprattutto, la messa in relazione tra loro, ci descrivono una realtà della diffusione del virus e della malattia abbastanza differente da quella propinataci giornalmente dalla narrazione dominante, la quale, utilizzando gli stessi dati, ha invece generato uno stato di terrore diffuso tra la popolazione, senza che ve ne fossero – oggettivamente, a giudicare dai dati stessi – reali motivazioni.

Allora il problema non è più solo quello di come si gestisce la pandemia in sé, ma anche di come essa viene raccontata all’opinione pubblica e delle potenziali (anche gravi) distorsioni che si possono generare nel comune sentire.

Certo questo può avvenire anche senza un disegno consapevole da parte di chi comunica, ma qualche dubbio, a questo punto, sembra legittimo. Che dire, ad esempio, di una Protezione Civile che, tanto per non terrorizzare la gente e cercare di attutire l’effetto da “film catastrofico” che i media veicolano in questi mesi, struttura il proprio sito internet in questo modo, decisamente inquietante?

Grafico 16 – Dashboard Protezione Civile del 30/06/20

Ed i famosi bollettini di guerra serali che ci hanno accompagnato nei primi mesi della pandemia? E l’ossessiva, scandalosa ricerca della sensazione a tutti i costi (ora drammatica, ora indignata, ora lacrimevole, ecc. ma sempre e rigorosamente senza una base di dati sensati, solo emozionale) con la quale i giornali e le TV ci bombardano quotidianamente? Evidentemente non è importante solo cercare di capire “cosa” ci viene comunicato – e quali ambiguità vi si possano celare –, anche il “come” richiede una qualche analisi con spirito critico, perché è in grado di fare non meno danni.

Ne è una prova lampante, a mio parere, l’affermazione di Hans Kluge, Direttore regionale dell’OMS per l’Europa, contenuta nella prefazione al citato documento “An unprecedented challenge – Italy’s first response to COVID-19” (quello prima pubblicato e poi frettolosamente ritirato, che è diventato un caso): “L’Italia ha uno dei sistemi sanitari più forti, ma quando il COVID-19 è arrivato alle sue porte, ha portato questo sistema quasi al collasso. E questo ha creato il panico nel mondo”30. Non “paura”, non “sconcerto”, neanche “reazione”, ma “panico”, cioè, come dice il Vocabolario Treccani, un “senso di forte ansia e paura che un individuo può provare di fronte a un pericolo inaspettato, e che determina uno stato di confusione ideomotoria, caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali. In particolari situazioni, tale reazione può diffondersi rapidamente tra più individui di una folla, dando luogo a fenomeni di panico collettivo. Anche, psicosi collettiva provocata dal diffondersi di notizie allarmanti”31. Ecco forse perché in tutta questa follia di numeri a vanvera (e di scelte basate su numeri a vanvera) non siamo soli al mondo…

Domanda n. 6 – Che succede nel resto del mondo?

L’OMS, dopo una prima classificazione di “epidemia”, ha dichiarato la SARS-CoV-2 una “pandemia”. Ovviamente – ma non è scontato, a sentire i media e, di conseguenza, la gente – ciò non significa che la malattia COVID-19 sia più grave, ma solo che il virus è più diffuso e che, in particolare, è diffuso in tutto il mondo (ad es. anche le influenze stagionali spesso sono pandemie).

Sorge perciò spontanea la curiosità di sapere cosa succede altrove e come gli altri stati si sono comportati; e anche in questo caso i media non ci aiutano, perché dicono tutto ed il suo contrario (complice la difficoltà per gli utenti di verificare le notizie in altre lingue), spesso piegando i fatti ad avvalorare tesi precostituite.

Comunque i dati ci sono e, nonostante l’eterogeneità delle fonti, sono tutti sostanzialmente convergenti, quindi ritengo si possa attribuire loro una certa significatività, pur nel trattamento “casalingo” che ne ho fatto (la tabella sottostante è infatti mia).

Ecco alcuni dati salienti, relativi a paesi con più di 1000 morti alla data del 10/11 (più alcuni altri paesi europei con numeri minori) che sembrano avere i dati più affidabili (ad es. con test effettuati almeno su più del 4% della popolazione), ordinati per tassi di mortalità covid crescenti:

Grafico 17 – Mia elaborazione da dati WHO, Worldometer e IMF al 11/11/20

A parte il dato della Cina (che ha una popolazione enorme ed ha limitato forzosamente i contagi ad una sola provincia) saltano all’occhio alcune evidenze:

– tra le 10 peggiori nazioni – tra cui l’Italia – per tasso di mortalità32 ben 8 hanno applicato lockdown completi e prolungati, mentre gran parte delle nazioni che non hanno applicato alcun lockdown si ritrovano nella parte alta della classifica e le “peggiori” tra queste (Olanda, Moldavia e Svezia) hanno tassi di mortalità di molto inferiori al nostro; quindi non sembra esserci evidenza del fatto che il lockdown generalizzato e prolungato sia stato una buona scelta per ridurre la mortalità, rispetto a lockdown selettivi o più blandi o addirittura a nessun lockdown…

– sembra esistere una correlazione tra percentuale di popolazione inurbata e tasso di mortalità: tra i 14 paesi con i tassi di mortalità più elevati (> 0,05%) 10 sono anche tra quelli che hanno maggiore concentrazione di popolazione nelle città (superiore all’80%); al momento, fanno eccezione Panama (68%), Italia (71%) e Perù (per poco: 78%); in particolare, il dato italiano farebbe pensare che la scelta del lockdown non fosse appropriata per una consistente parte del nostro territorio (su cui insiste un terzo della popolazione nazionale)…

– non sembra esserci una correlazione stretta tra età mediana della popolazione e tasso di mortalità, ma probabilmente il dato è condizionato dalla estrema variabilità nella qualità ed efficienza dei diversi sistemi sanitari nazionali; vi è comunque una situazione curiosa che riguarda Italia e Spagna, che hanno età mediane simili a quelle di Grecia, Germania e Portogallo, ma queste ultime hanno tassi di mortalità molto più bassi (dal 60 al 90% in meno!), nonostante abbiano adottato strategie di lockdown meno dure e/o meno prolungate rispetto a Italia e Spagna; sembrerebbe, quindi, che il lockdown duro e generalizzato non abbia salvaguardato la popolazione più anziana e fragile meglio di altri approcci al problema (sebbene – va detto – tra le cause di minore mortalità in Germania viene indicata, oltre ad una differente organizzazione della medicina territoriale, anche la scarsa propensione dei giovani a rimanere ad abitare con i propri anziani, riducendo così di gran lunga i rischi di contagio intrafamiliare, invece molto presenti in Italia).

– è evidente la correlazione tra presenza e/o durezza del lockdown e caduta del PIL nazionale nel 2020: gli stati che hanno adottato misure più restrittive e/o per tempi prolungati, sono quelli che hanno subito le diminuzioni di PIL più drammatiche; per questi stessi paesi anche il recupero nel 2021 sarà più lontano dai livelli pre-covid rispetto a quello dei paesi con minori o nessuna restrizione33.

Un’interessante e ben documentata chiave di lettura di queste discrepanze tra i dati dei diversi paesi l’ha data Pier Paolo Lunelli nel suo già citato lavoro “Covid-19 – Valutazione della qualità della pianificazione italiana per far fronte a una pandemia e confronto con quella di altri paesi“. Dall’analisi delle pianificazioni di emergenza pandemica di vari paesi, l’autore ha abilmente sintetizzato alcune illuminanti conclusioni in questo schema34:

Grafico 18 – Fonte: Pier Paolo Lunelli (2020)

La tesi dell’autore (un esperto in materia) è che i paesi che avevano un’adeguata pianificazione anti pandemica (ascisse) e che, grazie a questa, hanno saputo organizzare adeguatamente la risposta (ordinate) hanno avuto tassi di mortalità enormemente più bassi rispetto a quei paesi (come l’Italia) che non avevano piani anti pandemici aggiornati e che, anche per questo, hanno risposto confusamente all’emergenza (e, mi permetto di aggiungere, continuano a farlo, nonostante abbiano avuto 6 mesi di calma per pianificare35). Vi è quindi una evidente correlazione tra qualità della pianificazione anti pandemica di ciascun paese ed il tasso di mortalità che esso ha registrato.

Infine, come già più volte detto, i tassi di letalità ufficiali (che hanno a denominatore i positivi rilevati con i tamponi) non sono significativi in questa fase della pandemia (infatti nel tempo sono in costante discesa, all’aumentare dei test effettuati e dei positivi rilevati, un po’ ovunque nel mondo: si vedano le ultime 4 colonne, prima di quelle del PIL, nel Grafico 17, per averne un’idea); in effetti si parla anche di “tasso apparente di letalità”, che, per fare un esempio, a livello mondiale era del 4,9% il 2 luglio, del 3,8% il 5/8, del 3,1% il 17/9, del 2,9 il 5/10 e oggi (11/11) siamo al 2,5%. E’ però interessante notare che, secondo stime dell’OMS36, almeno il 10% della popolazione mondiale (cioè, alla stessa data del 5/10, circa 770 milioni di persone e non 35 milioni come rilevato dai tamponi, ben 22 volte di più!) sarebbe stata contagiata; questo significa che il tasso di letalità reale nel mondo, al 5/10, sarebbe dello 0,13%, cioè praticamente come quello di altre influenze pandemiche che abbiamo già avuto in passato. E, visto che i contagi nell’emisfero nord (il più popolato) stanno naturalmente aumentando, va da sé che questa percentuale scenderà ancora (ricordiamo, infatti, dal Grafico 15 che al curva dei decessi aumenta molto meno di quella dei contagi).

E sono convinto che, con l’ormai grande mole di dati sulla pandemia raccolti nel mondo (dove, peraltro, tra emisfero boreale ed australe, in questi pochi mesi abbiamo anche percorso tutte le stagioni climatiche), il quadro generale delle caratteristiche di questa pandemia (bassa letalità, conseguenze severe o critiche solo per una piccola percentuale di soggetti anziani e/o in condizioni di forte fragilità, andamento stagionale) possa ragionevolmente considerarsi consolidato, sebbene, dal punto di vista strettamente virologico, di SARS-CoV-2 si sappia ancora (dicono gli esperti) abbastanza poco. Ma questa è solo una mia idea e, per quanto ne so, al momento non vi sono dati univoci a supporto, oltre a quelli che abbiamo visto fino a qui.

CONCLUSIONI

Ho letto gli stessi dati che tutti i giorni, da 9 mesi in qua, ci vengono propinati dai media e dalle istituzioni creando terrore e panico tra la popolazione, ma ne ho ricavato notizie molto diverse, che confutano di fatto le letture più diffuse.

In particolare, a me (e lo sottolineo: a me) appare inequivocabile che:

  • il computo giornaliero dei positivi propinatoci in questi mesi è assolutamente privo di significato;
  • contare questi positivi come se fossero malati è fuorviante (in tutte le fasce d’età, almeno il 50% dei positivi non sviluppa la malattia e, tra il 75 ed il 99% a seconda della fascia d’età, non ha sintomi o ha sintomi insignificanti o sintomi lievi come quelli di una semplice influenza);
  • una stima sensata del numero delle persone che hanno avuto il COVID-19 in Italia è di almeno 6 volte più alta del numero rilevato con i tamponi (stime da dati ISTAT e OMS), cioè almeno 6 milioni (e in aumento);
  • il SARS-CoV-2 può contagiare a tutte le età, sia i maschi che le femmine;
  • di COVID-19 ci si ammala in non oltre il 20-50% dei casi, a seconda della fascia d’età, ma sicuramente più raramente e debolmente sotto i 50 anni; si va in ospedale per COVID-19 in non oltre il 1-20% dei casi;
  • di COVID-19 muoiono quasi esclusivamente le persone anziane e/o con malattie concomitanti; la maggior parte dei morti per COVID probabilmente non sarebbe morta in quel momento senza il COVID stesso, ma sarebbe comunque deceduta a breve per altre cause;
  • a causa dell’emergenza COVID (ma, soprattutto, di come questa è stata gestita) è morto un consistente numero di persone per altre malattie o condizioni non connesse alla pandemia, ma che, a causa di quest’ultima, sono state trascurate;
  • il lockdown, in Italia, è sicuramente stato fondamentale nella prima parte della pandemia (la fase 1) per alleggerire l’impatto sui servizi sanitari (anche se non era necessario che durasse 2 mesi), ma la fase 2 è stata un eccesso di prudenza di dubbia utilità e la fase 3 era priva di fondamento; queste scelte hanno avuto un notevole impatto sul PIL nazionale del 2020 e condizioneranno pesantemente anche il 2021;
  • l’effettiva utilità del lockdown completo e prolungato per ridurre la mortalità del COVID-19 è quanto meno dubbia;
  • la dimensione nazionale del lockdown completo è stata, invece, un errore marchiano;
  • dati i numeri dei contagi che realisticamente possiamo stimare, è evidente che l’obiettivo di tracciare e contenere il contagio a livello di tutta la popolazione è ormai da tempo impossibile e la strategia dei tamponi a tappeto è del tutto inutile; e insistere anche ora (come stiamo facendo) è fuori da ogni logica;
  • non avendo predisposto in anticipo un piano pandemico nazionale, meglio sarebbe stato utilizzare i mesi della pausa estiva per fare una adeguata pianificazione in vista dell’inverno; non avendo fatto neanche questo, meglio sarebbe ora investire in cura (sia ospedaliera che di territorio) invece che in tracciamento;
  • la scelta di contenere radicalmente i contagi (con mascherine, distanziamenti, sanificazioni, fino al lockdown duro e prolungato) non ci ha permesso di raggiungere un sufficiente livello di contagio e, quindi, di immunizzazione della popolazione; ciò significa che, insistendo con le strategie di contenimento ad oltranza, potremo raggiungere un adeguato livello di protezione generale solo quando (e direi anche se) si troverà un vaccino per SARS-CoV-2 e questo sarà somministrato ad una ampia porzione di popolazione;
  • va tuttavia anche detto che, a giudicare dalle reali conseguenze del virus sulla popolazione evidenziatesi in questi mesi ed essendo di gran lunga migliorate le capacità di risposta dei servizi sanitari, il non riuscire a raggiungere tale livello di protezione generale presumibilmente non sarà un grosso problema;
  • la grande mole di dati raccolti nel mondo ci da ormai un quadro ragionevolmente consolidato delle caratteristiche di questa pandemia, che provoca la malattia solo in un numero limitato di casi, una malattia a bassa letalità e con conseguenze severe o critiche solo per una piccola percentuale di soggetti anziani e/o in condizioni di forte fragilità; che ha un andamento stagionale ed appare in progressiva endemizzazione;
  • la comunicazione istituzionale è stata ed è ancora oggi, nel migliore dei casi, pessima, se non (viene da pensare, vista la sistematica drammatizzazione di dati pressoché infondati) volutamente terroristica; la comunicazione sensazionalistica dei media è inqualificabile, ai limiti della decenza.

Insomma, io non so cosa accadrà domani, come si evolverà la situazione. Quello che però so per certo è che i dati emersi fino ad oggi sono abbastanza chiari e consolidati da restituire una visione del contagio e della malattia così come certamente è stata fino ad oggi, e che questa visione è radicalmente diversa da quella dominante e accettata – evidentemente in modo acritico – dalla popolazione. Quindi, se tanto mi da tanto, non è la pandemia a dover preoccuparci di più per il futuro…

Infatti, tutti i dati che abbiamo visto fin qui mi portano a presumere che la curva dei contagi, come è ovvio e naturale, crescerà sostanziosamente nella stagione invernale (dapprima lentamente, poi con impennata esponenziale, secondo un andamento ben noto da sempre) e che avremo un certo numero di malati (che il nostro Servizio Sanitario Nazionale sa ormai come gestire, se viene messo in condizioni di farlo) ed ancora un certo numero di morti, ma con numeri sempre minori, essendo ipotizzabile – come accade in genere per i virus – il progressivo adattamento e la conseguente endemizzazione di SARS-CoV-2 nella popolazione.

Ma questo solo secondo me, ignorante uomo della strada…


ARCHIVIO delle vecchie versioni dei dati.


  1. SARS-CoV-2 è il nome del virus, COVID-19 è il nome della malattia che provoca. Sembra una banalità, ma già aver chiara questa distinzione non è cosa da poco. []
  2. A grandi linee, il tampone è un test che ci dice se il virus è presente in quel momento, il test sierologico ci dice invece se il virus c’è stato. []
  3. Si veda la dashboard dell’ISS, se si vuole una conferma []
  4. La ricerca è ancora in corso, in quanto non è stato ancora raggiunto il campione completo di 150.000 persone. I dati si riferiscono ad un campione di circa 65.000 persone, comunque affidabile e rappresentativo della popolazione, grazie anche ai trattamenti statistici che ISTAT ha applicato ai dati disponibili. []
  5. Anche la campagna di indagine sierologica sugli operatori della scuola, svoltasi a settembre in previsione della partenza dell’anno scolastico (500.000 testati , con 13.000 positivi), pur non essendo di tipo campionario – e mancando in particolare i più “contagiati” cioè i minori di 20 anni, e gli anziani over 65 – conferma sostanzialmente la percentuale di positività rilevata dall’indagine ISTAT []
  6. La confrontabilità dei due dati non è inficiata dalla differenza delle due rilevazioni – indagine sierologica per quella l’ISTAT, tampone per l’altra – in quanto di quest’ultima si considera il dato cumulativo alla stessa data del 15/7. La differenza metodologica nella rilevazione è quindi praticamente irrilevante. []
  7. Ciò conferma anche quanto scoperto con uno studio in via di pubblicazione dell’Istituto Superiore di Sanità realizzato attraverso l’analisi di acque di scarico raccolte in tempi antecedenti al manifestarsi della COVID-19 in Italia, e cioè che, nelle acque di scarico di Milano e Torino, c’erano già tracce del virus SARS-CoV-2 a dicembre 2019. []
  8. Si noti anche che questo sospetto era già stato avanzato ai primi di maggio (ben prima dell’indagine ISTAT) da un documento di OMS Europa (di cui riparleremo più avanti) stranamente pubblicato ma poi subito ritirato “I casi confermati erano solo la punta dell’iceberg. Il test di per sé produce una percentuale significativa di falsi negativi. Le persone che erano asintomatiche (precisamente quante non erano chiare alla fine di aprile) probabilmente non sarebbero mai state testate. Anche molti pazienti sintomatici non sono stati testati, in particolare all’inizio dell’epidemia, quando i test erano scarsi. Alcuni, non è ancora chiaro quanti, che sono risultati positivi al virus COVID-19, non hanno mai sviluppato alcuna malattia significativa.” []
  9. Infatti ci troviamo oggi ad un tasso di contagi molto al di sotto delle percentuali tra il 50 ed il 67% (a seconda del numero di riproduzione di base – il famoso R0 – nel range proposto dall’ECDC di 2-3) ritenute necessarie per avere la cosiddetta “immunità di gregge”, cioè una forma di protezione indiretta che si verifica quando la vaccinazione di una parte significativa di una popolazione (oppure quando, come in questo caso, la malattia è stata superata con anticorpi propri, senza vaccinazione) finisce con il fornire una tutela anche agli individui che non hanno sviluppato direttamente l’immunità. Occorre comunque sottolineare che un conto è raggiungere l’immunità di gregge per mezzo del vaccino (di fatto a costo di vite umane molto limitato), altro è ottenerla attraverso il contagio diffuso della popolazione (che invece comporta in genere un costo più alto in termini di malattia e di vite umane). []
  10. Ad esempio, appare abbastanza singolare che, il giorno 11/8, Ministero della Salute e ISS licenzino un documento importantissimo (“Elementi di preparazione e risposta a COVID-19 nella stagione autunno-invernale“) che parte dalla premessa (riportata al punto 1.1) di un tasso di letalità complessiva del 13,9% (che abbiamo già visto palesemente errato) quando già dal 3/8 era disponibile il pre-rapporto dell’ISTAT sull’indagine sierologica che permette di stimare in maniera molto più affidabile il tasso di letalità al 2,36%. Eppure, come già detto, ancora oggi nelle infografiche giornaliere dell’ISS e della Protezione Civile non vi è traccia del dato ISTAT, così come esso è sostanzialmente assente anche dal più recente “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” del 20/10/20. []
  11. Per la cronaca, in Lombardia, la regione più duramente colpita dal COVID-19 ed in cui erano presenti più della metà dei contagiati italiani, il tasso di letalità risultava del 2,2%, addirittura più basso della media nazionale. Si noti che questi tassi sono calcolati sul numero dei morti complessivi al 15/7, data in cui si è conclusa l’indagine ISTAT, iniziata il 25/5, e che alla stessa data il tasso di letalità secondo ISS era del 17,6% in Lombardia e, come detto, del 14,4% a livello nazionale. []
  12. Dice ISS nel rapporto del 28/10, l’ultimo disponibile: “Al 28 ottobre 2020 sono 420, dei 37.468 (1,1%), i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 93 di questi avevano meno di 40 anni (62 uomini e 31 donne con età compresa tra 0 e 39 anni). Di 15 pazienti di età inferiore ai 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche; degli altri pazienti, 64 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 14 non avevano diagnosticate patologie di rilievo.” []
  13. Segnalo a questo proposito una iniziativa del sito statistichecoronavirus.it che, a partire dai dati sulle condizioni cliniche ed i fattori di rischio, ha elaborato un “Calcolatore di sopravvivenza Covid-19“: una volta superato l’inevitabile sconcerto, si può verificare empiricamente quanto abbiamo detto finora… []
  14. ISTAT – Istituto Superiore di Sanità, “Impatto dell’epidemia covid-19 sulla mortalità: cause di morte nei deceduti positivi a sars-cov-2”, 16 luglio 2020 []
  15. Infine, sotto il profilo metodologico, il rapporto precisa che “è bene tenere a mente quali sono le caratteristiche di questa fonte di dati [la scheda di morte] per comprendere meglio le informazioni che essa fornisce. Innanzitutto, è importante notare che sulla scheda di morte sono riportate le condizioni che hanno avuto un ruolo nel determinare il decesso (sono cause di morte), quindi non sono necessariamente riportate tutte le malattie di cui il deceduto era affetto. Inoltre, la certificazione deve avvenire entro 24 ore dall’evento e il medico deve compilare la scheda secondo scienza e coscienza sulla base delle informazioni possedute al momento della compilazione. È quindi possibile che alcune informazioni rilevanti o dettagli utili a migliorare la specificità delle cause riportate non siano note al certificatore al momento della compilazione” (ed è possibile, aggiungerei, che il medico cui è appena morto un paziente possa orientare il contenuto della scheda in un modo più “difensivo”, specialmente in momenti eccezionalmente difficili come questi). Pertanto, fenomeni di distorsione sistematica dei dati possono, in questo caso, essere verosimilmente presenti. []
  16. L’età mediana dei contagiati non è un dato attualmente rilevabile nell’indagine di sieroprevalenza dell’ISTAT; tuttavia, data la sostanzialmente equa distribuzione del contagio nelle diverse fasce d’età della popolazione, è lecito attendersi che l’età mediana dei contagiati sia ancora più bassa, presumibilmente prossima all’età media della popolazione italiana (che è di 47 anni). []
  17. Va qui ricordato che l’indagine sui sintomi effettuata dall’ISTAT e sintetizzata nel grafico si basa su un’autodichiarazione delle persone intervistate e non su una valutazione dello stato clinico declinato secondo quanto fa l’ISS, pertanto non è possibile confrontare le gravità delle condizioni dei pazienti nelle due diverse rilevazioni. []
  18. Rapporto ISTAT “Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente nel primo quadrimestre 2020” – 4 giugno 2020 []
  19. Come detto, si tratta solo di una mia ipotesi, che tuttavia ritengo abbastanza fondata, anche alla luce di alcuni studi (limitati, ma significativi) come quello pubblicato sul New England Journal of Medicine (“Reduced Rate of Hospital Admissions for ACS during Covid-19 Outbreak in Northern Italy” del 28/4/20) citato da La Repubblica – Edizione di Torino del 7/6/20 o quello della Società Italiana Emergenza Sanitaria (“Covid 19 e Sistema 118: prime comparazioni tra i dati di attività a Milano, Genova, Roma e Bari” del 19/5/20) citato ne La Repubblica – Edizione di Genova del 7/6/20. Inoltre, a documentare il clima di tensione che ha presumibilmente scoraggiato molti dal recarsi in ospedale pur avendone grave bisogno, vi sono decine di articoli apparsi sulla stampa, spesso con titoli “forti” che fuorviavano dai contenuti effettivi (alcuni esempi, a caso: da Gazzetta di Mantova, Il Giorno, Ansa, MilanoToday), clima che non si è spento neanche dopo il lockdown (un esempio è questo articolo su RavennaNotizie). Ma anche la comunicazione istituzionale non ha brillato per chiarezza (anche qui, giusto per fare un esempio, si veda il Comunicato della Protezione Civile del 22/2, decisamente angosciante nella sua recisione). []
  20. Lo studio è apparso su SCIRE – Scienza In Rete, a firma di E. Bucci, L. Leuzzi, E. Marinari, G. Parisi, F. Ricci Tersenghi, il 22/4/20, con il titolo: “Verso una stima di morti dirette e indirette per Covid“. Dell’argomento parla anche il documento di OMS Europa dal titolo “An unprecedented challenge – Italy’s first response to COVID-19” (di cui parleremo più avanti), fornendo però un’interpretazione diversa: “Una visione più esauriente del bilancio reale dell’epidemia viene dal confronto tra la mortalità totale nei mesi dell’epidemia e la mortalità attesa negli anni precedenti. [I dati mostrano] come la mortalità abbia notevolmente superato gli intervalli abituali attesi, in particolare al nord. L’eccessiva mortalità per tutte le cause ha dipinto un quadro molto più drammatico dell’impatto dell’epidemia rispetto al numero di morti ospedaliere di persone con infezione COVID-19 confermata in laboratorio”. Segnalo, infine, questo articolo uscito il 21/12/20 sempre su SCIRE – Scienza in Rete, a firma di di P. Michelozzi, F. De’ Donato, M. Scortichini, M. De Sario, F. Noccioli, M. Davoli, con il titolo “Nel 2020 in Italia un eccesso di mortalità totale senza precedenti dal dopoguerra“, di estremo interesse. []
  21. Sul tema del conteggio delle terapie intensive va tuttavia detto che “il valore ufficializzato ogni giorno non rappresenta i nuovi ricoverati, ma il saldo tra ingressi e uscite (…) Il reale numero dei pazienti finiti in t.i. è quindi sicuramente più alto di quanto non appaia, ma non è possibile stabilirne con precisione l’entità. Una mancanza che andrebbe rapidamente sanata”. Fonte: Lab24 – Il Sole 24 Ore). Dal punto di vista della correttezza statistica del dato questa precisazione è importante, ma sul piano pratico influisce relativamente poco, soprattutto considerando che oggi in terapia intensiva si entra e si esce (vivi), a marzo-aprile in genere si entrava soltanto… []
  22. Sistema di Sorveglianza della Mortalità Giornaliera- Rapporto settimanale (21-27 ottobre 2020). []
  23. Ad es. in 9 mesi di emergenza, il governo ha licenziato protocolli operativi per qualunque cosa, ma non esiste ancora un protocollo di cura da applicare sul territorio da parte dei medici di famiglia. E la situazione di questo indispensabile presidio per la salute dei cittadini è drammatica e surreale, come testimonia questo articolo su Repubblica del 21/10. Anche le famose USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) non hanno avuto l’impatto sperato, un po’ perché utilizzate soprattutto per il solito tracciamento, un po’ per carenze organizzative, come segnalato ad es. in questo articolo sul Fatto Quotidiano del 21/10. []
  24. A questo proposito segnalo l’intervista, pubblicata sul Libero del 24/10, al Prof. Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, che è una brava persona, sensata e che parla per esperienza diretta, spesso e volentieri col supporto di dati: l’intervista originale non l’ho trovata, ma se ne può leggere una breve sintesi qui. []
  25. Sull’argomento segnalo l’interessante, ancorché complesso studio di Pier Paolo Lunelli, ex generale dell’Esercito, già responsabile della Scuola Interforze per la Difesa NBC, che è un “racconto di ciò che noi non avevamo, ma che eravamo tenuti ad avere come obbligo giuridico, e che altri avevano: un sistema efficace di sorveglianza sanitaria integrata e piani pandemici armonizzati a livello centrale, regionale e di comunità locale”, come dice lo stesso autore; suggerisco di leggere almeno le Conclusioni, che sono illuminanti. Ricordo che sulla questione di come è stato affrontata la pandemia in Italia c’è anche il famoso documento di OMS Europa, prima pubblicato e poi subito ritirato (e ancora oggi difficilmente reperibile), dal titolo “An unprecedented challenge – Italy’s first response to COVID-19” – io l’ho trovato sul sito del Giornale di Brescia; se ne parla diffusamente anche nella trasmissione di Rai3 Report del 2/11, se interessa. []
  26. Sul tema segnalo un articolo apparso su DoppioZero a firma di F. Guala (“La guerra al Covid e la guerra ai giovani“), ma anche uno studio di C. Favero, A. Ichino e A. Rustichini (“Restarting the Economy While Saving Lives Under COVID-19“) sintetizzato in due articoli su Il Foglio (“Si può tornare a scuola dividendo gli insegnanti (non gli alunni)“) e su LaVoce.Info (“Separare giovani ed anziani per scongiurare il lockdown“); si noti che la prima versione dello studio risale all’aprile scorso ed il primo dei due articoli all’8/5. []
  27. A questo proposito segnalo la ricerca Lockdown fatigue: The diminishing effects of quarantines on the spread of COVID-19 a cura di Patricio Goldstein, Eduardo Levy Yeyati e Luca Sartorio, pubblicata su Covid Economics, Vetted and Real-Time Papers, una pubblicazione del Centre For Economic Policy Research, che, analizzando le strategie di lockdown ed i loro risultati in 152 paesi, suggerisce che “le restrizioni applicate per un lungo periodo o reintrodotte alla fine della pandemia (ad esempio, in caso di recrudescenza dei casi) eserciterebbero, nella migliore delle ipotesi, un effetto più debole e attenuato sull’evoluzione dei casi e delle vittime. (…) Nel complesso, concludiamo che le restrizioni hanno svolto un ruolo nelle prime fasi della pandemia, ma hanno avuto un effetto transitorio che sarà difficile da replicare in futuro”. []
  28. Si tratta degli indicatori 1.1, 1.4, 2.1, 2.2, 2.3, 3.1, 3.2, 3.4, 3.6. Per maggiore approfondimento si può consultare la pagina dedicata al monitoraggio nel sito del Ministero della Salute []
  29. Una più semplice illustrazione dell’indice Rt, si può leggere in questo articolo nel sito Sciencecue.it; suggerisco di leggere, però, anche i commenti, perché, nonostante la chiarezza della spiegazione, rimangono legittime, secondo me, tutte le perplessità che questo indice – e soprattutto il suo utilizzo per determinare le scelte conseguenti – suscita []
  30. Italy has one of the strongest health systems, but when COVID-19 came to its doorstep, it brought this system to near collapse. And this made the world panic.” pag. V []
  31. No, non è che in inglese il termine “panic” abbia un altro significato; il Cambridge Dictionary lo definisce “a sudden strong feeling of fear that prevents reasonable thought and action”, cioè un’improvvisa forte sensazione di paura che impedisce il pensiero e l’azione ragionevoli. []
  32. Ricordo che il tasso di mortalità è dato dal numero di morti sulla popolazione suscettibile al virus, in questo caso tutta la popolazione di una nazione. È quindi ben diverso dal tasso di letalità (morti su contagiati). []
  33. Stime del Fondo Monetario Internazionale – IMF al 12/11). []
  34. Per una disamina approfondita di questo grafico consiglio la lettura del documento da cui è tratto, alle pagine 83-85 []
  35. Non è esatto dire che in Italia, dopo la prima onda, non si sia pianificato. Infatti ad ottobre Ministero della Salute e ISS hanno pubblicato il documento “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” che è in effetti una sorta di piano pandemico. Il problema è che è arrivato tardi e, per quanto ne posso capire, è largamente inattuato []
  36. Si tratta di un dato emerso durante la riunione del “WHO’s 34-Member Executive Board Focusing on COVID-19” del 5/10, come riportato dalla Associated Press, e più semplicisticamente ripreso anche in Italia. Il dato emerge dalle numerose indagini sierologiche sulla popolazione – come quella fatta dall’ISTAT in Italia – effettuate in molti paesi del mondo. []