I NUMERI

DELLA PANDEMIA DI SARS-COV-2 E DEL COVID-19 LETTI DALL’UOMO DELLA STRADA

Riflessioni pubblicate il 30 giugno 2020, ultimo aggiornamento del 28 settembre 2021Queste riflessioni sono periodicamente integrate con i dati aggiornati, ma, fino ad oggi, le principali conclusioni che ne emergono non sono mai cambiate sostanzialmente dalla prima edizione del 30/6/20. E già questo qualcosa vuol dire…

ATTENZIONE! Segnalo due libri: “Covid-19 – Un’epidemia da decodificare, tra realtà e disinformazione” di M. Bizzarri (con un saggio di M. Cacciari) e “Fallimento Lockdown – Come una politica senza idee ci ha privati della libertà senza proteggerci dal virus” di P. Stanig e G. Daniele. Dato che, secondo me, questi possono essere considerati i due libri definitivi sull’argomento (e consiglio vivamente a tutti di leggerli), sebbene non sia completamente d’accordo su tutto (sopratutto col secondo), ritengo che il presente BLOG a questo punto possa anche essere dimenticato. O al massimo rimanere come memoria storica: perché anche un uomo della strada poteva intuire sin dall’inizio come stavano le cose, se solo si fosse fermato a riflettere, pur senza essere uno scienziato come Bizzarri o un fine analista come Stanig e Daniele...

INDICE

SINTESI

Riporto qui le risposte sintetiche alle domande di cui sopra. Chi volesse approfondirne lo studio o capire su che basi affermo quanto qui sintetizzato, può farlo nella lunga (e noiosa, lo so) disamina che comincia di seguito a questa sintesi.

Domanda n. 1 – Quanti sono veramente i contagiati? In Italia si possono ragionevolmente stimare in circa 20-25 mln. le persone che, a tutt’oggi, sono venute a contatto con il virus (e non 4,6 mln. come rilevato dai tamponi; la stima è suggerita da un’indagine ISTAT e da numerose analoghe indagini fatte in tutto il mondo). Attenzione: questa discrepanza nei numeri è importante, perché mostra che il contagio è fuori controllo da tempo, che i tamponi a tappeto a scopo di tracciamento/contenimento sono inutili (e perciò soldi – molti – buttati e risorse umane sprecate), che il calcolo del famigerato Rt è senza senso e qualunque scelta su di esso basata è inesorabilmente sbagliata. Con l’avvento della vaccinazione, avendo essa raggiunto circa il 70% della popolazione e l’80-95% degli ultra 50enni (al 13/9/21), dovremmo, in linea teorica, essere ormai giunti ad una adeguata immunizzazione collettiva, sebbene – inspiegabilmente – ciò non abbia ancora portato alla eliminazione delle misure restrittive.

Domanda n. 2 – Quanto si muore di Covid-19? Stanti i numeri di cui sopra, il tasso di letalità in Italia si aggira attualmente intorno al 0,5-0,6% e non il 2,8% calcolato sui postivi rilevati con i tamponi; il tasso di mortalità (che non risente di quest’ultimo problema) è attualmente 0,21% (ovviamente in aumento, rimanendo più o meno costante la popolazione). Attenzione: i tassi sono più bassi di quanto si dica, tuttavia non sono piccoli numeri. Rimane comunque strano che, a livello mondiale, il tasso di letalità apparente sia due terzi di quello italiano ed il tasso di mortalità addirittura un quarto…

Domanda n. 3 – Chi muore di Covid-19? Con il Covid-19 muoiono quasi esclusivamente le persone anziane e malate: l’età media dei deceduti è 80 anni (mediana 82). L’età mediana dei deceduti positivi a SARS-CoV-2 è più alta di oltre 35 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (82 anni contro 46 anni). Solo l’1,2% dei morti aveva meno di 50 anni (e in gran parte con gravi patologie pregresse). L’85% dei deceduti aveva almeno altre 2 patologie gravi concomitanti (il 66% ne aveva 3 o più). Perciò si muore di Covid praticamente solo se si è molto anziani e molto malati. Attenzione: Morire “con” Covid non è lo stesso che morire “per” Covid; è una questione aperta, difficile da dirimere, di notevole impatto sui numeri.

Domanda n. 4 – Chi si ammala di COVID-19? Considerando i dati di novembre 2020 (quindi prima dell’avvento dei vaccini), risulta che il 97-99% dei positivi al SARS-CoV-2 sotto i 50 anni e oltre l’80% di quelli delle fasce superiori (esclusa la fascia 80-89 anni, che comunque è oltre il 76%), non si accorge neanche di averlo o se la cava con i sintomi lievi di una normale influenza. Tuttavia, sapendo che i positivi al tampone sono solo una piccola parte dei contagiati reali (e la restante parte è, ovviamente, asintomatica), possiamo stimare che, nella popolazione generale, quasi il 99% dei contagiati non ha sviluppato la malattia o ne ha avuto una forma lieve, che intorno all’1% è andato in ospedale (e lo 0,14% in terapia intensiva) e che comunque l’ospedalizzazione e la terapia intensiva riguardano in gran parte gli anziani, ma in non oltre il 4% dei casi (dato della fascia più a rischio, cioè 80-89 anni).

Domanda n. 5 – Abbiamo fatto (e stiamo facendo) le scelte giuste in Italia? A giudicare dai dati sopra riportati, direi di no. Le reazioni scomposte e di panico hanno generato – complice una discutibile impostazione di tipo meramente emergenziale ed una supina sottomissione della politica ai comitati tecnico-scientifici – una serie di misure complicate e spesso senza senso, che probabilmente hanno prodotto più danni di quanti vantaggi abbiano effettivamente portato.

Domanda n. 6 – Che succede nel resto del mondo? I dati sono ormai in quantità tale da essere incontrovertibili: sono stati presumibilmente contagiati 4 miliardi di persone nel mondo (cioè ben oltre i 227 mln. rilevati con i tamponi), con tasso di letalità che si aggira intorno al 0,125% e tasso di mortalità allo 0,06% (siamo sui livelli della influenza asiatica del 1956 e della Hong-Kong del 1968); di tutti i casi attualmente attivi (rilevati con i tamponi, quindi con la componente asintomatica pesantemente sottodimensionata), il 99,5% sono senza sintomi o in condizioni leggere (“mild conditions”), mentre lo 0,5% è in condizioni critiche (queste proporzioni sono stabili da oltre un anno). Le risposte emergenziali che sono state messe in campo in quasi tutti i paesi, se da un lato sono state utili ad alleggerire l’impatto sui sistemi sanitari nazionali meno pronti, dall’altro non sembrano aver influito più di tanto sulla dinamica generale della pandemia (se non allungandone lo sviluppo nel tempo), anzi in taluni casi le stesse misure potrebbero essere state la causa di ulteriori danni. Attenzione: i dati mostrano il quadro di una malattia abbastanza nella norma, per essere un’influenza piuttosto seria e per la quale non disponevamo di un vaccino in anticipo (come in genere avviene); non si capisce perciò il livello di drammatizzazione della risposta globale, ad un evento non poi così diverso da altri del passato: probabilmente lo spettacolare modello coercitivo cinese ed il singolare panico italiano hanno indotto una reazione isterica un po’ ovunque nel mondo (maggiormente nei paesi di area latina, ma non solo).

PREMESSA

Nelle precedenti edizioni di questa sezione, ho spiegato diffusamente i motivi che mi hanno direi costretto allo studio dei numeri della pandemia di SARS-CoV-2 e del COVID-191, cioè l’istintiva iniziale paura di questa malattia e, subito dopo, lo sconcerto di fronte ai numeri che ci venivano propinati da istituzioni e media e che erano chiaramente privi di senso, anche agli occhi di un profano: numeri assoluti, spesso citati parzialmente, in genere decontestualizzati e non messi in relazione ad altri dati importanti, senza interpretazioni sensate. Così mi sono messo a cercare i numeri direttamente nei siti istituzionali, a controllare sempre le fonti da cui provenivano le notizie dei media, rendendomi sempre più conto che, se volevo cercare di comprendere qualcosa di questa pandemia, dovevo cercare di interpretare i dati da solo, perché né le istituzioni, né tanto meno i media sembrano accorgersi dell’infondatezza ed incoerenza di ciò che comunicano (uso il presente perché ancora oggi è quasi sempre così, purtroppo).

Certo, questo è un approccio da profano, i conti che faccio sono spesso quelli “della serva” come si usa dire, ma anche i profani hanno diritto di cercare risposte e farsi un’idea, perciò anche la mia lettura “da uomo della strada” del fenomeno è legittima, visto che parte da dati istituzionali e di pubblico dominio, e semmai va confutata a partire dagli stessi numeri…

Le principali fonti a cui ho attinto i dati sono istituzionali (ISTAT, Istituto Superiore di Sanità – EpiCentro, Protezione Civile, WHO-OMS) o private ma di provata affidabilità (Worldometer, Our World In Data, Johns Hopkins University, Il Sole 24 Ore, Gruppo GEDI).

E, prima di cominciare, lo ribadisco: queste sono mie personali riflessioni, di persona ignorante sia di medicina, sia di statistica, sia di epidemiologia; non pretendo di avere argomentazioni inoppugnabili o che possono incrollabilmente reggere al vaglio di esperti nelle varie materie, ma avevo delle domande a cui non trovavo risposte esaurienti nelle spiegazioni dei media e dei loro esperti di turno o nelle dichiarazioni istituzionali, perciò ho cercato le risposte da solo, appuntandomele di volta in volta, per non scordarmene. E questi sono, quindi, solo i miei appunti…

Domanda n. 1 – Quanti sono veramente i contagiati?

Cominciamo col fare un po’ di ordine nella terminologia, perché la confusione regna: intanto, come detto in premessa, una cosa è il virus (SARS-CoV-2), un’altra è la malattia che provoca (COVID-19); vanno poi distinti:

  • i positivi al tampone, che possono essere contagiati o meno (dipende dalla quantità e qualità del virus presente)
  • i contagiati, cioè i positivi infettati dal virus, più o meno malati
  • i malati, cioè contagiati che hanno sviluppato la malattia, più o meno grave

Ad oggi istituzioni e media parlano di “casi”, termine generico che in realtà non spiega nulla (sebbene alluda al “caso clinico” che, come dice la Treccani, è “la concreta realizzazione di una malattia”) o di “contagi”; in entrambi i casi il termine è sbagliato e fuorviante, perché quello che noi possiamo evincere dal tampone2 è solo la positività. E questa è già una prima fonte di confusione per la popolazione.

Comunque, dare solo il numero assoluto dei positivi, come veniva fatto da istituzioni e media sin dall’inizio della pandemia (nel tetro bollettino giornaliero delle 18.00 che si ricorderà) non ha alcun significato, perché esso dipende da molti fattori, il più “banale” dei quali è la quantità di tamponi che vengono effettuati (è un principio logico basilare, mi pare: più cerco, più trovo…). Allora abbiamo necessità di mettere in relazione il numero dei positivi almeno con la quantità di tamponi che abbiamo effettuato, cosa che per mesi nessuno ha fatto; solo dalla fine di settembre dello scorso anno si è cominciato a parlare della percentuale di positivi su tamponi effettuati, quindi il dato, che prima solo a fatica si poteva trovare nei siti dedicati di qualche giornale importante, è timidamente comparso anche nei report istituzionali. Non che questo ci dica più di tanto, come vedremo, ma intanto qualcosa ci dice e vale la pena di esplorarlo:

Grafico 1 – Mia elaborazione da dati Protezione Civile 12/09/21

La linea azzurra indica il rapporto percentuale tra il numero di nuovi casi di SARS-CoV-2 (colonne in rosso) e il numero dei tamponi effettuati (colonne in grigio): è il dato che, ora anche nelle cronache ufficiali, affianca sempre il numero assoluto dei “casi”, col nome di “tasso di positività” (al 12/9, 1,91%). Esso tuttavia non è sufficiente al nostro scopo di capire l’entità della diffusione del contagio nel nostro paese, in quanto il numero dei tamponi totali (colonne in grigio) comprende anche quelli effettuati più volte sulla stessa persona, nonché i tamponi di controllo. Meglio allora considerare il numero delle persone testate (colonne in beige) in relazione ai nuovi casi, il cui rapporto percentuale è dato dalla linea nera. Questo grafico, in tal modo, ci fornisce almeno una stima sensata della positività rilevata (9% delle persone testate al 12/9), ma ovviamente non ci dice nulla sul contagio reale, perché i tamponi non sono effettuati su un campione rappresentativo della popolazione o almeno su un campione casuale, ma su categorie mirate (peraltro generalmente a rischio): è un cosiddetto “campione opportunistico”, cioè raccolto per altro scopo (il tracciamento) ma che utilizziamo per inferire un’informazione relativa a tutta la popolazione.

Quindi, nonostante i proclami delle istituzioni preposte e dei media, in tutti questi mesi non ci è stato mai comunicato un dato sensato ed utile per avere un’idea della diffusione reale del virus in Italia ed è ancora oggi sostanzialmente così3.

Il dato rilevato con il tracciamento a mezzo dei tamponi non è, tuttavia, del tutto inutile. Grazie all’alta numerosità dei tamponi effettuati, infatti, abbiamo un’idea abbastanza valida di come il contagio si evolve nel tempo, con le sue tendenze in aumento o diminuzione e ciò lo evinciamo anche dalla sostanziale corrispondenza di tali andamenti con quelli dei ricoveri e dei decessi, come giustamente rileva anche questa breve nota apparsa sul sito del CNR (dove comunque, a mio parere, dimostrando che “più casi = più tamponi” non viene sciolto del tutto il problema del “più tamponi = più casi”, che rimane a mio parere del tutto evidente anche nel grafico 1). D’altra parte va detto che questo dato in realtà conferma semplicemente quello che già sapevamo sin dall’inizio, sulla base delle conoscenze già disponibili sui coronavirus e, più in generale, sui virus respiratori e simil-influenzali, cioè l’andamento essenzialmente stagionale dei contagi e, soprattutto, della malattia grave4. La domanda, semmai, è: vale la pena spendere miliardi di euro in tamponi di tracciamento per ottenere solo un dato che, in linea generale, già conoscevamo? Ne riparleremo.

Comunque, un paio di altre considerazioni si possono fare anche a partire dal dato, pur parziale, della positività rilevata: la prima è che sin dalla metà di aprile il rapporto tra positivi e testati è in rapida discesa, fino ad attestarsi sotto l’ 1% per tutta l’estate, perciò, a quanto pare, dal 4/5 (fine del lockdown generale – tasso al 4%) si poteva passare direttamente alla riapertura totale e alla ripresa della vita normale, invece che alla Fase 2; ma è soprattutto la lunghissima Fase 3 ad essere stata sostanzialmente priva di senso, finanche dal punto di vista di chi puntava al contenimento dei contagi (di cui comunque, come detto, non abbiamo mai avuto dati realistici), tanto meno per chi – come me – ritiene più rilevante focalizzarsi sui dati della malattia e della gravità delle sue conseguenze (se ne parlerà più avanti). La seconda considerazione è invece più generale: il fatto che l’unico dato minimamente sensato sui contagi (cioè numero di nuovi positivi su tamponi effettuati) sia stato per lungo tempo del tutto assente nei report dei due principali propinatori istituzionali di dati (ISS e Protezione Civile, compresi i suddetti bollettini di guerra giornalieri in tv) e nella sezione Covid del sito del Governo, nonché nelle sintesi dei media, mentre venivano comunicati i soli dati assoluti, ha sicuramente ingenerato nella popolazione uno stato di terrore irragionevole, i cui riverberi sono ancora pesantemente presenti anche nella vulgata attuale sulla pandemia5. Ma anche di questo riparleremo più avanti.

Una svolta nel senso della chiarezza sulle dimensioni reali del contagio e della malattia in Italia è però finalmente arrivata il 3 agosto 2020, grazie alla pubblicazione di un report preliminare dell’ “Indagine di sieroprevalenza sul SARS-CoV-2” dell’ISTAT, questa sì effettuata su un campione significativo6.

Perciò, dopo 5 mesi dall’inizio dei report sulla pandemia, abbiamo avuto una prima risposta alla domanda n. 1: al 15/7/2020, i contagiati dal virus in Italia erano quasi 1,5 milioni, pari al 2,5% della popolazione.7 Si noti che, nello stesso mese di luglio 2020 il totale cumulativo dei positivi rilevati dai tamponi era di circa 243.000, meno di 1/6 di quelli reali8.

Sempre dall’indagine ISTAT traiamo anche il grafico seguente, che mostra il dettaglio della diffusione territoriale del virus:

Grafico 2 – Fonte: ISTAT 3/8/20

Da questi dati desumiamo che:

  • il virus SARS-CoV-2 circola nel nostro paese da più tempo di quello che pensavamo9;
  • il virus è molto più diffuso di quello che pensiamo (al 15/7/20 era 6 volte più di quanto rilevavamo con i tamponi nello stesso periodo; addirittura, come si dirà più avanti, stime OMS del settembre 2020 ritenevano che, nel mondo, almeno il 10% della popolazione fosse stato contagiato, ben 24 volte di più rispetto a quanto rilevato coi tamponi)10;
  • la diffusione, nella fase iniziale della pandemia in Italia, presentava notevoli differenze territoriali, con tutto il centro-sud ampiamente al di sotto della media nazionale;
  • il virus era comunque relativamente poco diffuso nel nostro paese, al 15/7/20;
  • eravamo ben lontani dalla cosiddetta “immunità di gregge”, trovandoci infatti ad un tasso di contagi molto al di sotto del 67% (percentuale calcolata sul numero di riproduzione di base – il famoso R0 – di 3 proposto dall’ECDC) ritenuto necessario per avere questa forma di protezione indiretta che si verifica quando la vaccinazione di una parte significativa di una popolazione (oppure quando, come in questo caso, la malattia è stata superata con anticorpi propri, senza vaccinazione) finisce con il fornire una tutela anche agli individui che non hanno sviluppato direttamente l’immunità. D’altro canto nemmeno eravamo in presenza almeno di una diffusione marcata del contagio tra la popolazione meno fragile, in modo da avere una consistente platea di immuni in vista del successivo inverno (avendo noi cercato di inibire la circolazione del virus anche nella stagione calda, quando le complicanze sono naturalmente meno presenti), inverno che infatti è stato funestato da nuove consistenti misure di contenimento. Le cose sono tuttavia molto cambiate con l’avvento della vaccinazione, grazie alla quale, avendo raggiunto circa il 70% della popolazione e l’80-95% degli ultra 50enni (al 13/9/21), dovremmo, in linea teorica, essere ormai giunti ad una adeguata immunità generalizzata, sebbene – neanche tanto inspiegabilmente, dato che l’obiettivo dei nostri governanti, guidati da epidemiologi e immunologi, è il tracciamento esatto, non la salute della gente; ne riparleremo – ciò non abbia ancora portato alla eliminazione delle misure restrittive.

Perciò, al momento attuale (13/09/21) possiamo ragionevolmente stimare in almeno 20-25 milioni le persone che sono state contagiate in Italia (avendo sviluppato o meno la malattia) e non 4,6 mln. come ancora ci si ostina ad affermare nei report istituzionali. E, come vedremo, questo dato è da tenere ben presente, perché è un punto dirimente per tutte le valutazioni che si faranno in seguito.

Domanda n. 2 – Quanto si muore di Covid-19?

La risposta è il tasso di letalità (cioè il rapporto tra morti e contagiati). Purtroppo però si tratta di un altro dato che, in corso di epidemia, è difficile calcolare: infatti, mentre conosciamo con un’approssimazione accettabile il numeratore (i morti), non conosciamo affatto il denominatore, non avendo il numero (o una stima) dei contagiati reali, ma solo dei positivi rilevati con i tamponi (con le distorsioni sopra dette).

Comunque, l’Istituto Superiore di Sanità questi calcoli li fa e li propone periodicamente nei suoi report:

Grafico 3 – Fonte: Lab24 su dati ISS (consultato 13/09/21)

Per quanto sopra detto, tuttavia, il tasso di circa il 2,8% che ancora si ottiene dal rapporto morti/tamponi positivi (nei mesi passati è stato molto più alto, per lungo tempo a due cifre), non ha alcun significato, sebbene questo calcolo sia ancora oggi quello considerato dalle istituzioni preposte (ad es. nella dashboard dell’ISS), poco importa se esso è comunque in costante discesa all’aumentare dei tamponi effettuati (cosa che ne conferma ulteriormente la sostanziale inattendibilità). Non si capisce perché infatti, a tutt’oggi il dato (certamente più attendibile) fornito da un’altra fonte istituzionale, cioè l’ISTAT, sia del tutto ignorato da ISS e Ministero della Salute11.

Comunque, grazie ai risultati dell’indagine ISTAT (e non al numero derivante dai tamponi effettuati), una prima risposta parziale alla domanda n. 2 è che, in Italia, al 15/7/20 erano morti con (ma, come vedremo, non necessariamente per) COVID-19 circa il 2,4% di quelli che hanno contratto il virus SARS-CoV-2, una percentuale non piccola, ma ben lontana dall’allarmante 14,4% di cui parlava l’ISS alla stessa data12.

E, volendo spingerci oltre, possiamo ragionevolmente affermare che, stimando i contagi totali a partire dai dati ISTAT e dalle stime OMS sopra citati, ad oggi (13/09/21) il tasso di letalità del COVID-19 in Italia si attesterebbe intorno allo 0,5 – 0,6% circa, che è comunque rilevante, ma incomparabilmente più basso di quanto le nostre istituzioni sanitarie ancora ci comunichino (come detto, attualmente 2,8%) e che, grazie al cielo, da un po’ di tempo in qua si comincia a definire “tasso di letalità apparente”13. Come vedremo più avanti, questa discrepanza è da tenere ben presente.

Il grafico percentuale sopra riportato, tralasciando la fuorviante colonna della letalità, ci può comunque dare un’idea per così dire “qualitativa” della situazione: muoiono principalmente anziani sopra i 70 anni (84,8%) ed il numero di persone che muoiono sotto i 50 anni è percentualmente irrilevante (intorno all’1,2%).14

Di qui la terza domanda.

Domanda n. 3 – Chi muore di Covid-19?

Ci vengono in aiuto i grafici che seguono (con le spiegazioni della stessa ISS), i quali confermano quanto appena detto.

Grafico 4 – Fonte: ISS – Report 21/07/21
Grafico 5 – Mia elaborazione dai dati ISS del 21/07/21

Quindi la risposta alla domanda n. 3 è:

  • muoiono principalmente persone anziane (almeno la metà dei deceduti ha oltre 82 anni e la media è di 80 anni, a conferma dell’irrilevanza percentuale dei morti sotto i 50 anni);
  • muoiono principalmente persone con molteplici patologie concomitanti (oltre l’85% dei morti aveva almeno 2 patologie gravi) e in questo, il Covid-19 non sembra comportarsi diversamente da altre infezioni virali con cui conviviamo da sempre senza fare troppe storie, come l’influenza stagionale o l’HIV (che però uccide principalmente giovani), solo per fare due esempi a tutti noti.15

A metà luglio 2020 è uscita sui giornali la notizia che “9 morti su 10 sono deceduti a causa del covid-19”, dato che sembrerebbe confutare quanto appena detto. In effetti si tratta di una sintesi giornalistica grossolana, estrapolata in modo spregiudicato da un rapporto ISTAT-ISS16, il quale in realtà dice che, dall’analisi di circa 5.000 (su 35.000) rapporti di morte redatti dai medici curanti, risulta che, nell’89% dei morti positivi al SARS-CoV-2, il COVID-19 è da considerarsi la causa iniziale, cioè “la causa che ha avviato la sequenza di eventi morbosi che hanno condotto al decesso” (secondo i criteri definiti dall’OMS), senza la quale, cioè, il decesso non si sarebbe verificato. E’ tuttavia altrettanto vero che nel 72% dei casi si sono verificate delle “concause di decesso preesistenti a COVID-19” cioè “malattie, traumatismi o circostanze esterne che hanno avviato sequenze di eventi morbosi indipendenti tra loro o che hanno contribuito al decesso aggravando le condizioni del paziente o il decorso della malattia” essendo pertanto “cause rilevanti e corresponsabili del decesso”: possiamo perciò dire che anche senza il COVID-19 queste persone sarebbero probabilmente decedute, sia pure in tempi diversi. Infatti “l’aumento della sopravvivenza della popolazione italiana, grazie alla riduzione dei livelli di mortalità a tutte le fasi della vita, ha fatto sì che oggi molti individui, soprattutto nelle età più avanzate, convivano con diverse malattie croniche. Pertanto, il decesso rappresenta spesso il risultato della concomitanza ed interazione di diverse malattie. Inoltre, la presenza di malattie croniche conferisce una vulnerabilità ed un aumentato rischio di mortalità in caso di eventi intercorrenti, come ad esempio le infezioni”. Quindi il nuovo rapporto non contraddice affatto i dati precedenti17.

Per chiudere i conti con la domanda 3, c’è un’ultima questione che preme: quella dell’eccesso di mortalità prodotto dal COVID-19 rispetto alla mortalità generale. Vedremo più avanti (alla domanda 5) il dettaglio della questione, qui ci basta evidenziare un dato, desumibile dalla tabella che segue:

Grafico 5b – Fonte: ISTAT (Decessi e cause di morte, 26/8/21) – ISS-Protezione Civile (Dati della Sorveglianza)

Sappiamo che, nonostante il trend sostanzialmente in diminuzione della mortalità generale in Italia da un decennio a questa parte, nel 2020, che pure era cominciato nel solco dello stesso trend, abbiamo avuto oltre 100.000 decessi in più rispetto alla media del quinquennio 2015-2019 (+15,5%). Considerando solo il periodo della pandemia, cioè marzo – dicembre, e confrontandolo con gli stessi mesi nel periodo 2015-19, risulta che, dei 108.000 morti in più nel 2020, ben 74.000 sono morti COVID, il 69% dell’eccesso totale. Ma se confrontiamo il periodo gennaio – giugno 2021 con l’analogo del quinquennio 2015-19, ci accorgiamo che, pur essendoci un eccesso di mortalità di 28.000 unità, il contributo COVID alla mortalità generale è stato molto più alto, quasi il doppio (53.000). Come è possibile? Delle due l’una: o in Italia sbagliamo a fare i conti dei morti COVID18 oppure significa che nel 2020, a causa del COVID-19, sono morte molte persone che sarebbero morte comunque nei mesi successivi per altre cause, riducendo in tal modo la platea dei morituri del 2021, cioè si sarebbe trattato di un anticipo di mortalità, il cosiddetto effetto “harvesting”. A complicare la questione arriva un importante e solido studio effettuato in Italia dal titolo “Doubled mortality rate during the COVID-19 pandemic in Italy: quantifying what is not captured by surveillance” di Odone, Del Monte, Gaetti, Signorelli pubblicato da The Royal Society for Public Health (ne parleremo anche più avanti), da cui emerge che “i decessi notificati per COVID-19 hanno rappresentato solo il 43,5% (intervallo regionale: 43-62%) della mortalità in eccesso. Si stima che più di due terzi dei decessi in eccesso che non sono stati rilevati dalla sorveglianza siano decessi non legati al COVID-19”, cioè i morti per COVID sarebbero 4 ogni 10 morti in eccesso; la coordinatrice della ricerca, Anna Odone, in un’intervista ai giornali ha anche riferito che “da gennaio ad aprile abbiamo avuto 192.000 decessi, quasi 9.000 in più rispetto all’atteso. In questo caso il contributo dei decessi Covid sulla mortalità è stato del 16%, con range regionali che vanno dal 19/20% del Nord al 14/16% del Mezzogiorno», cioè addirittura solo 2 morti su 10 in eccesso sarebbero da attribuire al COVID-19. Quindi, ricapitolando, secondo i dati ufficiali di Protezione Civile,ISS e ISTAT il Covid avrebbe provocato complessivamente il 93% dei morti in eccesso (cioè 9 su 10), mentre per lo studio di cui sopra 4,4 su 10 nel 2020 e 2 su 10 nei primi 4 mesi del 2021… Insomma la questione del numero dei morti reale per causa diretta del COVID-19 rimane aperta (molto si capirà solo tra qualche anno) e per ora dobbiamo accontentarci.

Domanda n. 4 – Chi si ammala di COVID-19?

Qui la questione è complicata soprattutto da una perniciosa ambiguità costantemente reiterata – esplicitamente o meno non importa – dal sistema di comunicazione ufficiale e dei media (positivi=malati) che, come più sotto vedremo, è completamente errata. Ma andiamo con ordine.

L’indagine sierologica ISTAT ha rilevato la seguente ripartizione del contagio SARS-CoV-2 per sesso ed età:

Grafico 6 – Fonte: ISTAT 3/8/20

La positività al SARS-CoV-2 è quindi equamente diffusa tra uomini e donne e già da questa tabella possiamo rilevare che il virus SARS-CoV-2 contagia di fatto tutte le fasce d’età e che quasi la metà dei contagiati ha meno di 50 anni, mentre solo il 18,7% dei contagiati ne ha più di 70 (cioè appartiene alla fascia a maggior rischio di malattia grave e/o morte).

Il grafico a torta che viene giornalmente diffuso da ISS è ancora più chiaro:

Grafico 7b – Fonte Dashboard ISS (13/09/21)

In questo grafico, relativo agli ultimi 30 giorni (aggiornato al 13/09/21), è vieppiù evidente che oltre il 72% dei contagiati ha meno di 50 anni, fascia d’età cui abbiamo già visto appartiene solo l’1,2% dei morti, mentre l’85% dei morti riguarda la fascia sopra i 70 anni, la quale però costituisce solo il 8 % dei contagiati. Ad ulteriore riprova di ciò, i dati ISS (pur se parziali, come abbiamo visto all’inizio, perché basati sui risultati dei tamponi) ci dicono che l’età mediana dei positivi (sempre al 13/09/21) è di 46 anni, mentre sappiamo che l’età mediana dei morti è 82 anni, con una differenza di ben 35 anni.

Quindi SARS-CoV-2 non contagia solo gli anziani, ma anzi contagia soprattutto i giovani; tuttavia sono gli anziani che possono avere le conseguenze più gravi.

Ma qui è d’obbligo fare un passo in più, per capire ciò che effettivamente ci ha colpito in questi mesi.

Grafico 8 – Fonte: ISTAT 3/8/20

L’indagine ISTAT (grafico qui sopra) certifica che oltre un quarto dei contagiati nel nostro paese è completamente asintomatico19. E qui si vede già la fondamentale distinzione tra contagiati (tutta la torta) ed i malati (solo i settori grigio e blu scuro).

Ma il seguente grafico preso dal sito dell’ISS è ancora più interessante, perché mostra le differenze nello stato clinico dei soggetti nelle varie fasce d’età:

Grafico 9 – Fonte: ISS 10/11/20

Utilizzo questo grafico nella versione del novembre scorso perché fotografa la situazione prima dell’avvento dei vaccini, perciò si tratta in effetti delle caratteristiche cliniche della malattia Covid-19 in sé. E, insieme a quello della quantità reale di contagiati (cfr. domanda n.1), questo è un tema importantissimo e dirimente per molte delle altre questioni qui presentate, soprattutto per quelle che riguardano la gestione della pandemia (di cui parleremo più avanti). Il grafico è inoltre decisamente probante perché relativo a dati raccolti ormai in quantità significativa (riguardando circa 434.000 dei 890.000 positivi rilevati con i tamponi alla data del 9/11) e, se anche sappiamo che il campione non è selezionato con criteri statistici, tuttavia l’alta numerosità ne mitiga le distorsioni; perciò possiamo considerare i dati di questo grafico come abbastanza attendibili nel descrivere le conseguenze, sotto il profilo clinico, dell’infezione da SARS-CoV-2 nella popolazione. Già così come lo vediamo e senza ulteriori analisi, infatti, questo grafico mostra che le conseguenze più gravi (stato clinico severo, con necessità di ospedalizzazione, e critico, con ricovero in terapia intensiva) occorrono maggiormente nella popolazione più anziana, fornendo così una prima risposta alla domanda n. 4: il virus può contagiare tutti, ma rischiano di ammalarsi gravemente soprattutto i più anziani. Ma in questo grafico c’è di più. E lo vediamo meglio a partire dai numeri che gli stanno dietro, riassunti nella tabella che segue, che riporta gli stessi dati del grafico e li rapporta a tutta la platea dei positivi al tampone rilevati, da inizio pandemia fino al 9/11/20 (e non solo i 434.000 di cui al grafico 9):

Tabella 9a – Fonte: dati ISS (file Covid-19 ISS open data, agg. 9/11/20

Qui vediamo chiaramente (colonna gialla) quali sono le percentuali, nelle diverse fasce d’età, delle persone positive che nemmeno si accorgono di avere la malattia o, alla peggio, se la cavano con i sintomi lievi come quelli di una normale influenza (tra il 97 ed il 99% sotto i 50 anni, oltre l’80% nelle fasce superiori, esclusa la fascia 80-89 anni, che comunque è oltre il 76%)20. Si noti anche che la percentuale di condizioni severe e, soprattutto, critiche diminuisce nella fascia d’età da 90 anni in su (e torna ad aumentare la percentuale nella colonna gialla): questo si spiega probabilmente (ma è solo una mia congettura) col fatto che gli individui che raggiungono in salute un’età elevata, hanno una fibra fisica più forte degli altri e ciò potrebbe avvalorare ulteriormente la tesi che uno stato di fragilità della persona è condicio sine qua non per gli esiti più infausti della malattia.

E specifico che, sebbene i dati presentati qui sopra e su cui abbiamo condotto il ragionamento fotografano la situazione al novembre ’20, essi non si discostano più di tanto anche da quelli odierni, riassunti nella tabella che segue (dove si da anche conto della differenza di impatto del contagio, della malattia e della morte nella popolazione under e over 50):

Tabella 9b – Fonte: dati ISS (13/09/21)

Ma c’è anche un dato in più, che in tutte queste tabelle e grafici non si vede, ma è “il convitato di pietra”: la grande differenza di numerosità tra i positivi rilevati con i tamponi e la stima di persone che complessivamente hanno avuto il virus in Italia ipotizzabile a partire dai dati dell’indagine sierologica Istat (6 volte il numero dei tamponi positivi, al tempo), la quale suggerisce che sin dall’inizio – ed ancora oggi – vi sia un gran numero di asintomatici e paucisintomatici non censiti (essendo principalmente questi i soggetti che sfuggono al tracciamento con i tamponi) e che, se lo fossero, farebbero aumentare di gran lunga le sezioni verde e blu del grafico 9 e le percentuali della colonna gialla nella tabella 9a, riducendo perciò ulteriormente l’incidenza della malattia sintomatica nella popolazione generale21.

La risposta alla domanda n. 4, quindi, si precisa ulteriormente: il virus può contagiare tutti, ma solo una piccola parte dei contagiati si ammala con sintomi e, di questi, si ammalano gravemente, tanto da aver bisogno di ricovero, quasi esclusivamente soggetti tra i più anziani e/o fragili.

Questi dati, infine, suggeriscono anche una riflessione più generale: c’è una differenza sostanziale tra positivi al SARS-CoV-2 e malati di COVID-19 e ragionare (e prendere decisioni) solo sui primi, come abbiamo fatto in questi mesi (e continuiamo a fare), è evidentemente fuorviante; allo stesso modo è fuorviante ragionare sullo stato clinico e sui decessi solo in termini umani (ogni malato è uno, ogni morto è uno) e non statistici (chi e quanti si ammalano in realtà e quanto gravemente), il che porta a sostituire, non solo nella narrazione dei media ma anche nel decisivo campo delle determinazioni politiche, i ragionamenti logici con quelli meramente emotivi.

E, in effetti, a questo punto il sospetto che il decisore politico abbia operato (e purtroppo operi anche oggi) le sue scelte sulla base di valutazioni poco sensate, non sembra così peregrino… E fa sorgere un’ulteriore domanda.

Domanda n. 5 – Abbiamo fatto (e stiamo facendo) le scelte giuste in Italia?

In Italia, come del resto è avvenuto in molta parte del mondo, abbiamo affrontato questa pandemia come un’emergenza epocale, mettendo in atto interventi senza precedenti, con impatti pesantissimi sulla vita delle persone. E non abbiamo ancora finito (la terza stagione invernale è alle porte), perciò vale la pena di evidenziare sin da subito i punti di forza e le criticità che emergono dai dati raccolti fino ad oggi, senza aspettare “l’ardua sentenza” dei posteri (che comunque un giorno necessariamente arriverà, speriamo).

Da noi, l’impatto della pandemia di un virus sostanzialmente sconosciuto, ma di cui dalla Cina ci giungevano notizie drammatiche, non ha permesso un approccio razionale e pragmatico, ma si è avuto un susseguirsi di provvedimenti, decisioni e azioni precipitoso e spesso incoerente, sia a livello centrale che locale; in tal modo, in alcune zone del paese, il contagio è andato presto fuori controllo ed il sistema sanitario è andato in tilt, anche per l’oggettiva difficoltà di definire adeguati protocolli terapeutici in relazione ad una patologia a quel momento sconosciuta. Con decisioni del 9/3 e dell’11/3/20 si è perciò adottato il doloroso provvedimento di lockdown duro ed esteso a tutto il territorio nazionale (con lo scopo di ridurre i contagi e allentare la pressione sul sistema sanitario, almeno in alcune zone), fino al 4/5 quando è cominciata la Fase 2 (con parziale ridimensionamento delle misure e alcune riaperture di attività), conclusasi l’11/6 per dar luogo alla Fase 3, caratterizzata da ulteriori riaperture e da un progressivo incremento dell’attività di tracciamento a mezzo di tamponi. Con l’arrivo dell’autunno si è assistito ad una ripresa della dinamica dei contagi (questa volta più diffusa a livello nazionale), con nuova pressione sui servizi sanitari, cui si è risposto dapprima col potenziamento del tracciamento, poi di nuovo con progressivi lockdown territoriali, nonché con misure francamente discutibili e certamente odiose, come le mascherine all’aperto ed il coprifuoco serale.

In questa intricata situazione le domande a cui ho dovuto cercare risposta, in realtà sono più di una e stavolta le risposte non sono facili. Andiamo con ordine. La prima questione è quella del lockdown di marzo-aprile: è fuori di dubbio che esso sia stato utile per ridurre il peso sui servizi sanitari in alcune zone d’Italia (tra le più popolate) che risultavano ad alta diffusione del virus; ma la durata della misura (quasi due mesi) e l’estensione a tutti il territorio nazionale sono stati una buona scelta? C’erano le basi per un provvedimento del genere, anche in considerazione dell’enorme costo in termini economici e sociali che esso ha comportato?

Una prima considerazione sulle implicazioni di questa scelta emerge da questo grafico, in cui l’ISTAT cerca di spiegare l’incremento di mortalità del 2020 (linee blu) rispetto ai dati degli stessi periodi nel quinquennio 2015-2019 nelle zone ad alta diffusione COVID-19.22

Grafico 11 – Fonte: ISTAT 4/6/20

Tale incremento è infatti solo in parte spiegato dalle morti con COVID-19 (linee gialle). Di fatto la restante parte dell’eccesso di morti non si spiega, se non come mortalità COVID non rilevata o mortalità indiretta causata dalla crisi del sistema ospedaliero. È interessante notare che l’andamento della curva delle linee blu (eccesso di morti) è sostanzialmente uguale nei due grafici (maschi e femmine), mentre non lo è quella gialla (in quanto di COVID muoiono più maschi che femmine). A mio parere – ma è solo una mia ipotesi, che avrebbe bisogno di ulteriori dati a supporto – queste curve suggeriscono che tante persone siano morte perché non ci si è occupati di loro, preoccupati come eravamo soprattutto per i malati COVID, o perché semplicemente non sono andate in ospedale per paura di contagiarsi e/o per rispondere agli appelli delle autorità che in quei giorni esortavano a non recarsi negli ospedali se non per motivi urgenti (e mentre i giornali titolavano con eccessiva semplificazione, creando ulteriore confusione).23 Non si può tuttavia ragionevolmente concludere che, per quanto suggestiva, questa sia l’unica spiegazione del surplus di morti; da un interessante studio (pure se di qualche mese fa) risulta, infatti, più plausibile uno scenario in cui “l’epidemia abbia provocato sia un elevato numeri di morti indirette, sia un elevato numero di decessi dovuti al Covid-19 che non sono stati certificati tali. La percentuale delle morti indirette rispetto a tutte quelle in eccesso varia in Lombardia tra il 20% e il 35%, mentre in Emilia-Romagna tra il 20% e il 30%, quindi il risultato sembra robusto e dirci che circa un terzo dei decessi sono ‘danni collaterali’ dell’epidemia. La percentuale delle morti Covid non certificate rispetto al totale dei decessi dovuti al virus varia in Lombardia tra il 15% e il 30%, mentre in Emilia-Romagna varia tra il 10% e il 22%. Anche questo risultato sembra ragionevole, sulla base dell’osservazione che nelle zone piú colpite dall’epidemia i decessi Covid che non si è riusciti a certificare con il tampone sono in percentuale maggiore.”24; un po’ più sotto parleremo di un ulteriore studio, ma molto più recente, che conferma in sostanza quanto detto.

La tendenza si inverte dopo il 20/4, secondo l’ISTAT, per la riduzione (favorita dal lockdown) della pressione sul sistema sanitario e/o per il miglioramento della sua performance, nonché per il cosiddetto “effetto harvesting” (un’anticipazione di decessi che sarebbero comunque avvenuti nel breve periodo, mentre successivamente si assiste a una diminuzione della mortalità, dato che i più fragili sono già morti).

La questione è confermata nel rapporto ISTAT del 9/7, in questa tabella che, per maggiore chiarezza, mettiamo vicino al grafico 2 che abbiamo già visto sopra, tratto dall’Indagine di Sieroprevalenza:

Grafico 12b – Fonte: ISTAT 9/7/20 e 3/8/20

Come si può vedere il tasso di mortalità generale in Italia nel 2020, rispetto allo stesso periodo nel quinquennio 2015-19, era in diminuzione a gennaio e febbraio mentre si impenna a marzo ed aprile, per poi tornare negativo a maggio. Già sappiamo dal grafico 11 che tale impennata non è solo motivata dai morti Covid (comunque rilevanti), tuttavia questa tabella ci dice di più e cioè che tale andamento anomalo non si è verificato solo nelle zone ad alta diffusione di COVID-19 (principalmente nelle regioni del nord Italia, evidenziate in rosso), dove il surplus potrebbe essere in gran parte costituito, come abbiamo visto, da morti COVID non diagnosticati, ma anche nelle altre zone d’Italia meno colpite dalla pandemia; in queste zone a media o bassa diffusione (soprattutto regioni del centro e del sud, evidenziate in bianco e in verde), dove quindi l’incidenza dei morti per COVID-19 è enormemente più bassa, l’inversione di tendenza rispetto al gennaio-febbraio può, a mio parere, spiegarsi solo come mortalità indiretta per altre malattie o condizioni non connesse alla pandemia, ma che, a causa di quest’ultima, sono state trascurate. La cosa risulta evidente anche analizzando con qualche attenzione questi grafici tratti dal rapporto dell’ISTAT “Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente” pubblicato il 10/06/21:

Grafico 12c – Fonte: ISTAT 10/06/21

Mi sono dilungato nell’analisi di dati ormai vecchiotti per un preciso motivo, cioè per mostrare che gli elementi utili per avere consapevolezza di un eccesso di mortalità indiretta (quindi non causata dal virus, ma dalle nostre scelte conseguenti) erano già ampiamente disponibili sin dalla fine della prima ondata, un concetto che tornerà utile tra poco. Comunque i dati che confermano definitivamente queste prime intuizioni sono, alla fine, arrivati, grazie anche ad un notevole studio (già citato alla domanda 3) dal titolo “Doubled mortality rate during the COVID-19 pandemic in Italy: quantifying what is not captured by surveillance” di Odone, Del Monte, Gaetti, Signorelli pubblicato da The Royal Society for Public Health (chi non mastica l’inglese ne può leggere una sintesi giornalistica, purtoppo un po’ confusa, sul sito de Il Messaggero), che giunge alle seguenti conclusioni: “In Italia il tasso di mortalità è raddoppiato a marzo e aprile 2020 rispetto ai dati dal 2015 al 2019 (+109%, se si considerano i comuni con più di10.000 abitanti), con un eccesso di mortalità che raggiunge valori oltre il 600% nei grandi comuni delle aree settentrionali. I decessi notificati per COVID-19 hanno rappresentato solo il 43,5% (intervallo regionale: 43-62%) della mortalità in eccesso. Si stima che più di due terzi dei decessi in eccesso che non sono stati rilevati dalla sorveglianza siano decessi non legati al COVID-19, che potrebbero essere il risultato dell’eccesso di onere sui sistemi sanitari, oltre alla riduzione della domanda e dell’offerta di servizi sanitari non-COVID”.

Quindi, nei primi 4 mesi del 2020 (due dei quali trascorsi in lockdown “duro” e generalizzato):

  • è morta molta più gente degli scorsi anni;
  • non sono solo i morti Covid “ufficiali” a costituire questo surplus;
  • vi sono stati morti Covid non computati nelle cifre ufficiali,
  • ma molti sono morti di patologie diverse dal Covid perché non hanno ricevuto o non hanno richiesto le cure necessarie
  • e ciò è avvenuto non solo dove c’era un’alta diffusione di COVID-19, ma in tutta Italia, anche laddove non vi era alcuna emergenza sanitaria.

Viene a questo punto da chiedersi: con questa consapevolezza, che, come detto, doveva essere presente già alla fine della prima “onda”, quali misure abbiamo preso per prepararci all’inevitabile seconda? Quali elementi ci hanno portato a rispondere a quest’ultima ancora con le stesse soluzioni (restrizioni, chiusure, confinamenti, etc.) che già avevano mostrato i loro limiti (se non la loro dannosità)? Lo vedremo tra poco.

Intanto possiamo dire che, alla fine dell’emergenza ospedaliera, probabilmente una mitigazione del lockdown (che già la sostanziosa diminuzione dei contagi rilevati, di cui abbiamo parlato alla domanda 1, suggeriva) poteva aver luogo sin da aprile e, comunque, dal 4/5 (fine del lockdown generale) si poteva passare direttamente alla riapertura totale e alla ripresa della vita normale, invece che alla Fase 2 e alla Fase 3, le quali hanno inutilmente acuito le problematiche della cittadinanza, senza che ciò fosse evidentemente supportato dai dati. Anzi, proprio la scelta di contenere i contagi (soprattutto tra bambini e giovani, che, lo sappiamo dai dati clinici, non rischiano niente) anche durante il periodo estivo, quando cioè le possibilità di complicanze da COVID-19 erano più contenute anche per le fasce più a rischio, è stata poco sensata: in particolare bambini e giovani si sarebbero infatti immunizzati almeno per qualche mese, rendendo meno delicata la fase di rientro a scuola e riducendo il rischio di contagio intrafamiliare (che è il più importante meccanismo di diffusione del virus, almeno qui da noi) e comunque un aumento consistente degli immunizzati avrebbe migliorato complessivamente la situazione in autunno.

Ne concludiamo che, se la strategia di lockdown (al netto della comunicazione terroristica di istituzioni e media, ma ne parleremo più avanti) ha avuto un’indubbia utilità per alleviare la pressione sugli ospedali in difficoltà, invece, almeno dal punto di vista del contenimento dei morti, essa non sembra aver pagato. Appare inoltre chiaro che applicare indistintamente lo stato di emergenza ed il lockdown a tutto il territorio nazionale non sembra solo essere stato inutile, ma addirittura deleterio. Infine, la fase 2 e la fase 3 appaiono prive di senso e non supportate dai dati, essendo state irrilevanti per il contenimento (di numeri irrisori) e per sollevare i servizi sanitari (che non erano più in difficoltà), ma avendo acuito inutilmente i problemi economici e sociali ed impedito la parziale immunizzazione della popolazione, cosa che poteva tornare utile nel successivo periodo autunnale.

La seconda questione è quella del “dogma” del tracciamento e del contenimento. Su questo obiettivo si è concentrata l’azione soprattutto dal mese di agosto ‘20 in poi, con un incremento sostanzioso dei tamponi effettuati ed una grande profusione di risorse umane e materiali. Era (ed è) un obiettivo sensato? È concretamente realizzabile il tracciamento, a questo punto della pandemia? Il contenimento della diffusione del virus è possibile? E, soprattutto, tracciamento e contenimento servono davvero?

Stavolta la questione è abbastanza chiara: dati i numeri che l’indagine di sieroprevalenza dell’ISTAT e le stime OMS ci suggeriscono, cioè che probabilmente vi siano milioni di persone in Italia che hanno contratto il SARS-CoV-2 (ben più dei 4 mln. che abbiamo fino ad oggi rilevato) è assolutamente evidente che tracciare e contenere a livello di tutta la popolazione è ormai da tempo impossibile e la strategia dei tamponi a tappeto è del tutto inutile. Le uniche possibili attività di tracciamento e contenimento che si possono attuare sono quelle relative a singoli cluster, in luoghi ben delimitati (ad es. RSA, carceri, caserme, conventi…) e gli unici tamponi che ormai ha senso fare sono quelli diagnostici, per le persone che hanno sintomi (che è peraltro l’uso per il quale i tamponi sono stati inventati). Anche perché – vale la pena ricordarlo – siamo in presenza di un virus a letalità molto bassa e circoscritta a precise tipologie di soggetti, che provoca una malattia lieve o del tutto asintomatica mediamente nel 94% dei casi: se anche perdiamo il controllo del tracciamento, non sembra un grosso problema… Ma il dogma del tracciare e contenere, in luogo di preparare e predisporre per la cura, appare ancora più insensato (e deleterio) col passare del tempo. Abbiamo già visto come aver impiegato le ultime due estati in queste attività sia stato del tutto inutile (con percentuali di positivi rilevati irrisorie) ed anche miope (abbiamo perso l’occasione di lasciar circolare il virus in un periodo caldo e di far immunizzare larga parte della popolazione, soprattutto infantile e giovanile, cosa che ci avrebbe aiutato, almeno all’inizio, nei mesi freddi); ma ci voleva poi tanto a capire che si trattava di uno spreco di tempo e risorse, dato che l’andamento stagionale avrebbe fatto ripresentare le problematiche di cura di lì a pochi mesi? A giudicare da questo grafico sull’andamento stagionale della mortalità che lo stesso ISS pubblica settimanalmente, sembrerebbe che attendersi una ripresa della mortalità nei mesi invernali in corrispondenza di eventi influenzali non fosse così peregrino:

Grafico 14 – Fonte: ISS (11/06/21)

Appare perciò insensato continuare a spendere tempo e risorse in questa onerosissima attività di screening generalizzato (forse utile ormai solo agli studi dei virologi e degli epidemiologi e più temuto per le sue conseguenze che non apprezzato per la sua utilità dai cittadini), mentre sembrerebbe più logico investire nelle attività di diagnosi e cura, sia sul territorio (dove la maggior parte dei malati di COVID-19 possono essere tranquillamente curati), sia a livello ospedaliero (a tale proposito si veda questa nota del 17/2, nella sezione “Le altre considerazioni”).

La terza questione (collegata alla precedente) è quella dei provvedimenti per la cosiddetta “seconda ondata” (tema che torna di moda, ora che attendiamo la terza). Abbiamo fatto tesoro delle esperienze della “prima onda”? Ci siamo preparati adeguatamente? Abbiamo fatto e stiamo facendo scelte razionali basate sui dati (ormai in quantità tali da darci un quadro consolidato della pandemia)?

Purtroppo la risposta è NO, su tutta la linea. Come detto, una volta fuori dalla prima emergenza ci siamo concentrati su tracciamenti e contenimenti di SARS-CoV-2 (quando già sapevamo dall’ISTAT che il fenomeno aveva già ben altri numeri rispetto ai nostri tamponi) e non ci siamo preparati ad affrontare il ritorno (scontato) del COVID-19 nella successiva stagione fredda, organizzando la medicina di territorio (questa sì in grado di contenere l’impatto sugli ospedali)25, veicolando informazioni finalmente corrette alla popolazione (anche questo avrebbe ridotto la corsa isterica al pronto soccorso a cui abbiamo di nuovo assistito nella seconda ondata, come nella prima; e presumo che anche alla terza non saremo da meno)26, approntando adeguati piani di potenziamento delle risposte ospedaliere (in termini sia di ricovero ordinario che di terapia intensiva). E proprio l’errore della mancata pianificazione che ci ha rovinati a marzo 202027 lo abbiamo pari pari ripetuto in vista della “seconda ondata” (la vicenda calabrese fu emblematica, ma anche nella piccola Umbria non fummo da meno) e nulla fa presagire che ciò non si ripeterà con la terza che, nonostante i vaccini, inevitabilmente arriverà; e, sebbene, per quanto sopra diffusamente detto, sia di tutta evidenza che la diffusione dei contagi è pressoché ininfluente sugli esiti della gestione della malattia, all’arrivo della seconda ondata abbiamo puntato tutto su tracciamento e contenimento (fino ad arrivare nuovamente a lockdown e altre misure draconiane, con le loro inevitabili devastazioni) piuttosto che sulla risposta di cura (di una malattia che ormai sappiamo affrontare e che fa sempre meno danni). E dare la colpa ai giovani che “uccidono” i nonni perché vanno a scuola o escono la sera è, oltre che falso, indecoroso: altro che patto generazionale28. Ma del resto è già da ora abbastanza evidente che un’adeguata strategia “caproespiatoria” per la terza ondata è già pronta e sarà quella di darne la colpa a quattro rimbambiti no-vax (o ai legittimamente perplessi)…

Quindi la risposta alla pandemia che, ancora una volta, ci ritroviamo a dare anche in questa seconda ondata è quella del lockdown29, cioè la peggiore possibile e, in un certo senso, la più semplice: lo scopo è di nuovo quello alleggerire la pressione sui servizi sanitari, cioè la parte del nostro “sistema” di risposta alla pandemia che più aveva sofferto nella fase 1 e che abbiamo avuto tempo di potenziare e razionalizzare per 5 mesi (maggio-settembre 2020) ma non l’abbiamo fatto, preferendo concentrarci sulla proverbiale chiusura della stalla dopo la fuga dei buoi, cioè su tracciamento e contenimento (ricordiamoci le surreali mascherine in spiaggia o l’assurdità – costosissima – dei banchi scolastici monoposto o i tamponi ai vacanzieri, solo per fare qualche luminoso esempio) quando già dai primi di agosto ‘20, con il pre-rapporto dell’indagine ISTAT, sapevamo che il controllo del contagio a tutto campo era abbondantemente sfuggito di mano. Ma attenzione: accanto all’ormai purtroppo nuovamente giusto scopo di alleggerimento del peso sugli ospedali di cui sopra, ancora ad ottobre  in molti insistevano sull’obiettivo del tracciamento e contenimento generale; nella conferenza dell’ISS del 30 ottobre, un’affermazione fatta en passant dal Presidente Silvio Brusaferro, mi pare, a questo proposito, molto chiara: “Il tracciamento rimane il nostro obiettivo, per riportarlo completamente sotto controllo dobbiamo abbassare la curva (…) ridurre il numero dei casi e quindi piegare la curva; piegando la curva riacquistiamo la capacità di tracciare tutti”. Ecco di nuovo il corto circuito logico, che purtoppo, stando a quanto si sente in giro, continuerà anche nei prossimi mesi.

Corto circuito che si evidenzia con chiarezza nelle due misure cardine che, per la seconda ondata, sono state messe in campo da ottobre 2020: la zonizzazione a colori per definire quali delle varie misure (quelle note come chiusure, DAD, divieti di spostamento, ma anche surreali, come le mascherine obbligatorie all’aperto, o di guerra, come il coprifuoco serale) siano applicabili e la fissazione di soglie di allarme nell’occupazione dei posti in ospedale per evitare il sovraccarico del sistema sanitario.

Quanto alla prima misura, sorvolando sulle implicazioni sociali, economiche, psicologiche, formative, culturali, ecc. (ben note a tutti, tranne che a CTS e politici) del lockdown e delle altre misure escogitate, mi limito ad osservare che, dei 21 indicatori utilizzati dal Ministero della Salute per definire l’appartenenza di una regione ad una delle 3 aree di rischio (gialla, arancio, rossa), come previsto dal DPCM 3/11/20, almeno 9 sono basati su dati derivati dal solito “numero di casi” di cui ben sappiamo i limiti30; in particolare, il famigerato Rt (numero di riproduzione base “equivalente a (…) R0, con la differenza che Rt viene calcolato nel corso del tempo”, come recitano le spiegazioni sul sito ISS), di cui tutti parlano come il numero magico in grado di predire la catastrofe, soffre – e grandemente, viste le dimensioni delle positività non censite – della stessa distorsione31.

Per quanto riguarda la seconda misura, invece, lo stridore è evidente: invece di potenziare la risposta ospedaliera (con tempo e soldi che evidentemente erano disponibili, se li abbiamo scialacquati – e continuiamo a farlo – col tracciamento) abbiamo fissato arbitrariamente dei limiti prudenziali che, se superati, comportano l’interruzione della vita dei cittadini. In pratica non è più il Sistema Sanitario a guardarci le spalle mentre viviamo, ma siamo noi che cerchiamo di non vivere troppo, per non disturbare il Sistema Sanitario. Geniale.

Poi sono finalmente arrivati i vaccini. E qui nasce la quarta questione degna di analisi: quale strategia vaccinale abbiamo adottato? Ci porterà davvero “fuori dal tunnel” come dicono? Anche in questo caso, la risposta è sconfortante. Ma, dato che ne parlo diffusamente in alcune note della sezione “Le altre considerazioni”, rimando direttamente alla lettura delle stesse (note del 27/12, 17/3, 18/3, 15/4, 16/6, 25/8, 7/9, 8/9). Mi limito qui a rilevare che la strategia vaccinale adottata in Italia (cioè quella di vaccinare tutti e al più presto) rientra a pieno titolo nel novero delle misure illogiche ed ottuse con cui abbiamo affrontato la pandemia. È infatti noto che i vaccini proteggono le persone dalla malattia grave e dalla morte, ma non dal contagio: allora qual è il senso di vaccinare tutti indistintamente, compresi i giovani (e presto forse anche i bambini)? Per proteggerli da malattia grave e morte? I giovani e i bambini non corrono questi rischi. Oppure lo facciamo per proteggere i fragili dal contagio veicolato dagli altri (tra cui, quindi, giovani e bambini)? Ma i vaccini disponibili non sono immunizzanti, perciò non proteggono dal contagio. Perché dunque vaccinare tutti, quando bastava vaccinare chi rischia la malattia grave e la morte (insieme agli operatori sanitari che di loro si devono occupare)? E perché, una volta che comunque abbiamo vaccinato il 76% della popolazione (e l’83% della platea) – persone che quindi non si ammalano e non muoiono pure se contagiate – continuiamo con le misure di contenimento, mascherine, distanziamenti, sanificazioni, etc.? Viene da pensare che, ancora una volta, l’obiettivo non sia la salute delle persone, ma solo il dogma del tracciamento/contenimento. Allora sì che si capisce…

E, infine, vi è una quinta, spinosa e trasversale questione: quella della comunicazione. Come abbiamo abbondantemente dimostrato, la lettura approfondita dei dati disponibili e, soprattutto, la messa in relazione tra loro, ci descrivono una realtà della diffusione del virus e della malattia abbastanza differente da quella propinataci giornalmente dalla narrazione dominante, la quale, utilizzando gli stessi dati, ha invece generato uno stato di terrore diffuso tra la popolazione, senza che ve ne fossero – oggettivamente, a giudicare dai dati stessi – reali motivazioni.

Allora il problema non è più solo quello di come si gestisce la pandemia in sé, ma anche di come essa viene raccontata all’opinione pubblica e delle potenziali (anche gravi) distorsioni che si possono generare nel comune sentire. Certo questo può avvenire anche senza un disegno consapevole da parte di chi comunica, ma qualche dubbio, a questo punto, sembra legittimo. Che dire, ad esempio, di una Protezione Civile che, tanto per non terrorizzare la gente e cercare di attutire l’effetto da “film catastrofico” che i media veicolano in questi mesi, struttura il proprio sito internet in questo modo, decisamente inquietante?

Grafico 16 – Dashboard Protezione Civile del 30/06/20

Ed i famosi bollettini di guerra serali che ci hanno accompagnato nei primi mesi della pandemia? E l’ossessiva, scandalosa ricerca della sensazione a tutti i costi (ora drammatica, ora indignata, ora lacrimevole, ecc. ma sempre e rigorosamente senza una base di dati sensati, solo emozionale) con la quale i giornali e le TV ci bombardano quotidianamente? Evidentemente non è importante solo cercare di capire “cosa” ci viene comunicato – e quali ambiguità vi si possano celare –, anche il “come” richiede una qualche analisi con spirito critico, perché è in grado di fare non meno danni32.

Ne è una prova lampante, a mio parere, l’affermazione di Hans Kluge, Direttore regionale dell’OMS per l’Europa, contenuta nella prefazione al citato documento “An unprecedented challenge – Italy’s first response to COVID-19” (quello prima pubblicato e poi frettolosamente ritirato, che è diventato un caso): “L’Italia ha uno dei sistemi sanitari più forti, ma quando il COVID-19 è arrivato alle sue porte, ha portato questo sistema quasi al collasso. E questo ha creato il panico nel mondo”33. Non “paura”, non “sconcerto”, neanche “reazione”, ma “panico”, cioè, come dice il Vocabolario Treccani, un “senso di forte ansia e paura che un individuo può provare di fronte a un pericolo inaspettato, e che determina uno stato di confusione ideomotoria, caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali. In particolari situazioni, tale reazione può diffondersi rapidamente tra più individui di una folla, dando luogo a fenomeni di panico collettivo. Anche, psicosi collettiva provocata dal diffondersi di notizie allarmanti”34. Ecco forse perché in tutta questa follia di numeri a vanvera (e di scelte basate su numeri a vanvera) non siamo soli al mondo…

Domanda n. 6 – Che succede nel resto del mondo?

L’OMS, dopo una prima classificazione di “epidemia”, ha dichiarato la SARS-CoV-2 una “pandemia”. Ovviamente – ma non è scontato, a sentire i media e, di conseguenza, la gente – ciò non significa che la malattia COVID-19 sia più grave, ma solo che il virus è più diffuso e che, in particolare, è diffuso in tutto il mondo (ad es. anche le influenze stagionali spesso sono pandemie).

Sorge perciò spontanea la curiosità di sapere cosa succede altrove e come gli altri stati si sono comportati; e anche in questo caso i media non ci aiutano, perché dicono tutto ed il suo contrario (complice la difficoltà per gli utenti di verificare le notizie in altre lingue), spesso piegando i fatti ad avvalorare tesi precostituite. Comunque i dati ci sono e, nonostante l’eterogeneità delle fonti, sono tutti sostanzialmente convergenti, quindi ritengo si possa attribuire loro una certa significatività, pur nel trattamento “casalingo” che ne ho fatto . Ho infatti raccolto i dati salienti per 40 paesi (quasi tutti gli stati europei, più alcuni dai vari continenti con i dati più significativi) in un file di Excel piuttosto complesso, che potete scaricare dai link contenuti nella nota35.

Nelle tabelle che seguono sono selezionati alcuni dei dati della tabella generale (troppo grande per essere visualizzata tutta intera). In esse sono evidenziati i valori più critici (rossi) e quelli migliori o più blandi (azzurro); ho inoltre evidenziato le righe di Italia, Germania e Svezia, per facilitare alcune riflessioni proposte più avanti.

Tabella 17a
Tabella 17b

Dall’analisi – purtoppo poco agevole – delle due tabelle emergono alcune evidenze:

  • col passare del tempo (si vedano le precedenti versioni di questa analisi, nella sezione “Archivio”), grazie all’aumentare dei numeri complessivi (che tendono ad appiattire le differenze) e presumibilmente complice la massiccia campagna vaccinale nonché le grandemente migliorate capacità di cura, non sembrano più particolarmente significative le correlazioni tra i età mediane delle popolazioni e casi rilevati e morti, mentre rimane sempre suggestiva di qualche connessione la relazione tra numero dei casi rilevati e tasso di inurbamento della popolazione (dal significato evidente), nonché quella tra i numeri dei test e dei casi rilevati (e abbiamo già ricordato come, per le caratteristiche e gli scopi della campagna di tracciamento intrapresa, di fatto più si cerca, più si trova…);
  • evidenti sono invece le correlazioni di alcune grandezze della vita economica delle nostre nazioni con lo stringency index (traducibile come indice di rigore, severità, costrizione) calcolato sulla base delle restrizioni e misure adottate nei vari paesi in relazione alla pandemia; in particolare, la piattaforma Our World In Data che lo calcola, lo definisce come “una misura composita basata su nove indicatori di risposta, tra cui chiusure scolastiche, chiusure di posti di lavoro e divieti di viaggio, ridimensionati a un valore da 0 a 100 (100 = più severo). Se le politiche variano a livello subnazionale, l’indice viene mostrato come il livello di risposta della sotto-regione più rigorosa”36. In particolare risulta abbastanza evidente che ad alti valori dello stringency index (sia come valore medio, sia nei valori di picco toccati) corrispondano forti cadute del PIL nel 2020 e difficoltà a tornare ai livelli pre-covid entro il 2022; analogamente, ad alti valori dell’indice corrispondono pesanti perdite in termini di ore di lavoro. Per inciso, entrambe queste due condizioni si applicano al caso italiano;
  • e, sempre riguardo all’Italia, molto interessanti sono anche un altro paio di dati che emergono dalla tabella. Il primo è la correlazione, in questo caso inversa, tra numero dei casi e tassi di occupazione delle terapie intensive e dei posti ospedalieri ordinari; infatti noi abbiamo un numero di casi per milione di abitanti non particolarmente elevato (76.418), sensibilmente più basso della media europea (91.432), ma siamo tra le nazioni che hanno avuto i più alti tassi di occupazione delle terapie intensive (con picchi del 78%) e dei reparti ordinari (20%). Il secondo dato italiano abbastanza inspiegabile è che, sempre a fronte del suddetto numero di casi per milione sotto la media, abbiamo un tasso di mortalità tra i più alti (2.153), ben oltre la media europea (1.754). Non è facile interpretare queste due evidenze; personalmente sono propenso ad attribuire la cosa all’italico eccesso di drammatizzazione (che può indurre a conteggi “generosi”), nonché alla ipertrofica “medicina difensiva” che affligge la Sanità italiana da parecchi decenni, entrambi gli aspetti con ricadute sul ricorso eccessivo alla risorsa ospedaliera, a scapito della medicina territoriale (tendenza esattamente contraria a quella della Germania, che infatti ha tassi molto più bassi di noi su tutta la linea, dai “casi”, ai morti, al riempimento degli ospedali);
  • infine, una curiosità: nella tabella 17b c’è il dato sulle percentuali di fumatori, che in Italia sono mediamente il 19,8% delle donne e il 27,8% degli uomini, cioè circa 14 mln. in totale. Ora, combinando questo dato con quelli dell’ISTAT e quelli istituzionali riportati dall’autorevole sito dell’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro), scopriamo37 che il tasso di letalità del fumo di sigaretta è stimabile in percentuali variabili tra lo 0,43%-0,69% (stime ISS), lo 0,54% (stima Min. Salute) e lo 0,73% (su scala mondiale, stima OMS che comprende anche le morti dei fumatori passivi): cifre molto vicine a quello 0,5-0,6% del tasso di letalità plausibile del Covid-19 di cui abbiamo detto alla domanda 2. Va però precisato che, nel caso del fumo, si tratta di morti che si verificano tutti gli anni, non episodicamente; e non mi risulta sia mai stato proclamato alcuno stato di emergenza, né nazionale né globale, in merito…

Tra le tante discrepanze evidenti nei dati di questo gruppo, neanche troppo ampio, di paesi (peraltro in gran parte simili per livello di sviluppo, per ricchezza, per livello di assistenza sanitaria, per struttura demografica, etc.), voglio evidenziare quelli tra Italia, Germania (che può essere considerato un punto di riferimento) e Svezia (della quale, sui nostri media e nella nostra narrazione popolare, in questo anno e mezzo si è detto peste e corna). Cominciamo con gli stringency indexes il cui confronto, nel caso della Svezia è impietoso, mentre è meno contrastato quello con la Germania (ma comunque generalmente inferiore a quello italiano):

Grafico 17c

Come spiegare il fatto che, mentre questi grafici mostrano chiaramente come l’Italia abbia adottato strategie di restrizione molto più dure di Germania e Svezia, il suo dato di mortalità per milione di abitanti (2.153) sia il doppio di quello tedesco (1.106) ed il 50% in più di quello svedese (1.446)? Oppure che la saturazione delle terapie intensive italiane sia stata simile (cioè alta) a quella della Svezia, pur senza un corrispondente livello di restrizioni, e del tutto fuori scala rispetto a quella della Germania, nonostante una certa analogia nelle misure restrittive?

Grafico 17d

Personalmente ritengo che il confronto Italia – Svezia dimostri abbastanza chiaramente che non sembra esserci evidenza del fatto che il lockdown generalizzato e prolungato, nonché le misure restrittive e lo stato di emergenza infiniti, siano stati una buona scelta per ridurre la mortalità, rispetto a lockdown e misure più selettivi o più blandi (o addirittura a nessun lockdown e gran parte delle misure solo “consigliate”); mentre il confronto con la Germania mostra che, indipendentemente da lockdown e comunque dalla durezza delle misure emergenziali, quello che veramente fa la differenza è il livello di organizzazione del servizio sanitario e di pianificazione della risposta.

In questo senso, un’interessante e ben documentata chiave di lettura di queste discrepanze tra i dati dei diversi paesi l’ha data Pier Paolo Lunelli nel suo già citato lavoro “Covid-19 – Valutazione della qualità della pianificazione italiana per far fronte a una pandemia e confronto con quella di altri paesi“. Dall’analisi delle pianificazioni di emergenza pandemica di vari paesi, l’autore ha abilmente sintetizzato alcune illuminanti conclusioni in questo schema38:

Grafico 18 – Fonte: Pier Paolo Lunelli (2020)

La tesi dell’autore (un esperto in materia) è che i paesi che avevano un’adeguata pianificazione anti pandemica (ascisse) e che, grazie a questa, hanno saputo organizzare adeguatamente la risposta (ordinate) hanno avuto tassi di mortalità enormemente più bassi rispetto a quei paesi (come l’Italia) che non avevano piani anti pandemici aggiornati e che, anche per questo, hanno risposto confusamente all’emergenza e, mi permetto di aggiungere, continuano a farlo, nonostante abbiano avuto 6 mesi di calma per pianificare prima della seconda ondata e ulteriori 12 prima della terza che è in arrivo39; l’unico presidio su cui abbiamo puntato – e sembra neanche con particolare successo – è stato il vaccino, che lungi dal diventare uno dei tasselli di una più ampia e strutturata strategia, è stato invece trattato come una scialuppa di salvataggio su cui salire alla “si salvi chi può” (da cui l’ottuso, inutile perseguimento del 100% di vaccinati), una soluzione salvifica onnipotente che sta già mostrando i suoi limiti e infatti, nonostante le ampie coperture di cui disponiamo (tra le più alte al mondo), continuiamo a rimanere in emergenza e con un elevato livello di restrizioni. Vi è quindi una evidente correlazione tra qualità della pianificazione anti pandemica di ciascun paese (e, più in generale, la sua capacità di “pensiero strategico”) ed il tasso di mortalità che esso ha registrato.

Prima di concludere, mi preme fare anche una breve notazione sul tema dei numeri a vanvera, che non sono solo un retaggio italico. Abbastanza indicativo, in tal senso, è questo aneddoto che riguarda l’OMS. Ad ottobre 2020 in una conferenza stampa Michael Ryan, Direttore Esecutivo del Programma per le Emergenze Sanitarie dell’OMS diceva “La malattia continua a diffondersi, è in aumento in molte parti del mondo. Le nostre migliori stime attuali ci dicono che circa il 10 per cento della popolazione mondiale potrebbe essere stata infettata da questo virus”; sempre nella stessa conferenza stampa Margaret Harris, portavoce dell’OMS, affermava che la stima si basa su una media di studi sugli anticorpi condotti in tutto il mondo e che avere un 90% stimato di persone non infettate significa che il virus ha “l’opportunità” di diffondersi ulteriormente “se non agiamo per fermarlo”, ad esempio col tracciamento. Quindi, stessa notizia e due versioni catastrofiste opposte: uno infatti dice che purtroppo il virus corre ed ha già contagiato addirittura il 10% della popolazione mondiale (avrebbe perciò preferito una percentuale più bassa?), l’altra invece dice che, siccome la percentuale è così bassa, abbiamo purtroppo ancora un 90% di persone che si possono infettare perciò dobbiamo fermarlo (cioè avrebbe preferito che la percentuale fosse più alta?). Nel maggio 2021 Samira Asma, vicedirettore generale dell’Oms parlando con i giornalisti a Ginevra nel corso della presentazione del rapporto annuale “Global Health Statistics”, afferma che le persone morte direttamente o indirettamente a causa del Covid “sono almeno il doppio, il triplo di quelle ufficiali”. Tre affermazioni per sottolineare la tragicità della situazione (e per terrorizzare?), ma che, se lette con attenzione, hanno in realtà tutt’altro significato. Se infatti ad ottobre, quando i contagi rilevati nel mondo erano 35 mln., l’OMS stimava che in realtà fossero 1/10 della popolazione mondiale, cioè 780 mln., oltre 22 volte quanto rilevato, possiamo presumere anche oggi che i contagi totali, invece dei 227 mln. rilevati, siano circa 4 mld. Se così fosse, a fronte dei quasi 5 mln. di morti, il tasso di letalità non sarebbe affatto 2,2% (peraltro inverosimile), ma 0,125% (vicino a quello della influenza di Hong-Kong del 1968 o dell’asiatica del 1956). Orbene, se anche le previsioni dei morti non fossero 5 mln. ma il triplo, come teme il vicedirettore dell’OMS, cioè 15 mln. il tasso di letalità sarebbe comunque 0,33%, simile a quello della malaria o dell’epatite A negli under 50 (per capirci: la spagnola fu al 2,5%, il vaiolo è al 3%) e anche il tasso di mortalità, che in tal caso sarebbe non dello 0,06% odierno ma dello 0,18%, non si discosterebbe molto da quello della asiatica del ’56 (e ben lontano dalla spagnola, che viaggiava tra 4 e 8%). Insomma, i corto-circuito logici non ci sono solo da noi…

Per concludere, con l’ormai grande mole di dati sulla pandemia raccolti nel mondo, ritengo che il quadro generale delle caratteristiche di questa pandemia (bassa letalità, conseguenze severe o critiche solo per una piccola percentuale di soggetti anziani e/o in condizioni di forte fragilità, andamento stagionale) possa ragionevolmente considerarsi consolidato, mostrando perciò una malattia abbastanza nella norma, per essere un’influenza piuttosto seria e per la quale non disponevamo di un vaccino in anticipo (come in genere avviene); non si capisce perciò il livello di drammatizzazione della risposta globale ad un evento non poi così diverso da altri del passato: probabilmente lo spettacolare modello coercitivo cinese ed il singolare panico italiano hanno indotto una reazione isterica un po’ ovunque nel mondo. Le risposte emergenziali che sono state messe in campo in quasi tutti i paesi, se da un lato sono state utili ad alleggerire l’impatto sui sistemi sanitari nazionali meno pronti, dall’altro non sembrano aver influito più di tanto sulla dinamica generale della pandemia (se non allungandone lo sviluppo nel tempo), anzi in taluni casi le stesse misure potrebbero essere state la causa di ulteriori danni.

CONCLUSIONI

Ho letto gli stessi dati che tutti i giorni, da un anno e mezzo in qua, ci vengono propinati dai media e dalle istituzioni creando terrore e panico tra la popolazione, ma ne ho ricavato notizie molto diverse, che confutano di fatto le letture più diffuse.

In particolare, a me (e lo sottolineo: a me) appare inequivocabile che:

  • il computo giornaliero dei positivi propinatoci in questi mesi è assolutamente privo di significato;
  • contare questi positivi come se fossero malati è fuorviante (il 99% dei positivi non ha sintomi o ha sintomi insignificanti o sintomi lievi come quelli di una semplice influenza);
  • una stima sensata del numero delle persone che hanno avuto il COVID-19 in Italia è di almeno 6 volte più alta del numero rilevato con i tamponi (stime da dati ISTAT e OMS), cioè almeno 20-25 milioni;
  • il SARS-CoV-2 può contagiare a tutte le età, sia i maschi che le femmine;
  • di COVID-19 ci si ammala in non oltre il 18-40% dei casi, a seconda della fascia d’età, ma sicuramente più raramente e debolmente sotto i 50 anni; si va in ospedale per COVID-19 in non oltre il 1-23% dei casi (queste percentuali diventano 3-7% e 0,1-4% se consideriamo non i casi rilevati con i tamponi ma quelli stimati, sicuramente più plausibili);
  • di COVID-19 muoiono quasi esclusivamente le persone anziane e/o con malattie concomitanti; la maggior parte dei morti per COVID probabilmente non sarebbe morta in quel momento senza il COVID stesso, ma sarebbe comunque deceduta a breve per altre cause;
  • a causa dell’emergenza COVID (ma, soprattutto, di come questa è stata gestita) è morto un consistente numero di persone per altre malattie o condizioni non connesse alla pandemia, ma che, a causa di quest’ultima, sono state trascurate;
  • il lockdown, in Italia, è sicuramente stato fondamentale nella prima parte della pandemia (la fase 1) per alleggerire l’impatto sui servizi sanitari (anche se non era necessario che durasse 2 mesi), ma la fase 2 è stata un eccesso di prudenza di dubbia utilità e la fase 3 era priva di fondamento; queste scelte hanno avuto un notevole impatto sul PIL nazionale e sull’occupazione nel 2020 e condizioneranno pesantemente anche il 2021 e 2022;
  • l’effettiva utilità del lockdown completo e prolungato per ridurre la mortalità del COVID-19 è quanto meno dubbia;
  • la dimensione nazionale del lockdown completo è stata, invece, un errore marchiano;
  • dati i numeri dei contagi che realisticamente possiamo stimare, è evidente che l’obiettivo di tracciare e contenere il contagio a livello di tutta la popolazione è ormai da tempo impossibile e la strategia dei tamponi a tappeto è del tutto inutile; e insistere anche ora (come stiamo facendo) è fuori da ogni logica;
  • non avendo predisposto in anticipo un piano pandemico nazionale, meglio sarebbe stato utilizzare i mesi della prima pausa estiva per fare una adeguata pianificazione in vista dell’inverno; non lo abbiamo fatto ed abbiamo avuto un altro inverno impegnato nel tracciamento, con cure ospedaliere e di territorio di nuovo in affanno. Poi sono arrivati i vaccini, ma nulla è cambiato e ci avviciniamo alla terza onda praticamente con le stesse criticità di sempre (ma pronti a tracciare di gran lena);
  • la scelta di contenere radicalmente i contagi (con mascherine, distanziamenti, sanificazioni, fino al lockdown duro e prolungato) non ci ha permesso di raggiungere un sufficiente livello di contagio e, quindi, di immunizzazione naturale della popolazione; insistendo con le strategie di contenimento ad oltranza, soltanto l’arrivo del vaccino e la sua somministrazione massiva ci hanno ottenuto un adeguato livello di immunizzazione generale. Ma, a giudicare dalle reali (scarse) conseguenze del virus sulla popolazione evidenziatesi in questi mesi ed essendo di gran lunga migliorate le capacità di risposta dei servizi sanitari, si poteva raggiungere lo stesso obiettivo con meno della metà dei vaccinati e tornando subito dopo alla normalità;
  • anche la strategia vaccinale adottata (cioè quella di vaccinare tutti al più presto) rientra a pieno titolo nel novero delle misure illogiche ed ottuse applicate in Italia per la pandemia: invece di vaccinare solo 20 milioni di fragili (e i sanitari addetti alla loro cura) con questi vaccini che proteggono dalla malattia e dalla morte, stiamo vaccinando tutti, cioè quel 99% della popolazione che non rischia né l’una né l’altra. Inoltre, nonostante ciò, continuiamo ad applicare restrizioni, mascherine, distanziamenti, sanificazioni, etc. Sembra evidente, quindi, che l’obiettivo delle nostre azioni non sia la salute delle persone, ma il dogma del tracciamento/contenimento, col suo imperativo morale della distruzione definitiva e totale del virus;.
  • la grande mole di dati raccolti nel mondo ci da ormai un quadro ragionevolmente consolidato delle caratteristiche di questa pandemia, che provoca la malattia solo in un numero limitato di casi; che tale malattia ha una bassa letalità e conseguenze severe o critiche solo per una piccola percentuale di soggetti anziani e/o in condizioni di forte fragilità; che è data da un virus che ha un andamento stagionale ed appare in progressiva endemizzazione, come i virus influenzali;
  • la comunicazione istituzionale è stata ed è ancora oggi, nel migliore dei casi, pessima, se non (viene da pensare, vista la sistematica drammatizzazione di dati pressoché infondati) volutamente terroristica; la comunicazione sensazionalistica dei media è inqualificabile, ai limiti della decenza; l’ignoranza in cui la popolazione viene mantenuta (anche con la sistematica delegittimazione delle opinioni dissenzienti, qualunque sia la loro fondatezza) ha assunto connotati delinquenziali.

Insomma, io non so cosa accadrà domani, come si evolverà la situazione. Quello che però so per certo è che i dati emersi fino ad oggi sono abbastanza chiari e consolidati da restituire una visione del contagio e della malattia così come certamente è stata fino ad oggi, e che questa visione è radicalmente diversa da quella dominante e accettata – evidentemente in modo acritico – dalla popolazione. Quindi, se tanto mi da tanto, non è la pandemia a dover preoccuparci di più per il futuro…

Ecco quindi le mie previsioni: tutti i dati che abbiamo visto fin qui mi portano a presumere che, insistendo col tamponamento di massa, avremo ancora una curva dei contagi che crescerà anche nella prossima stagione invernale (secondo un andamento naturale ben noto da sempre), questione davvero poco interessante già lo scorso anno, figuriamoci ora che ci sono i vaccini; quello che interessa è invece che avremo anche quest’anno un certo numero di malati (che il nostro Servizio Sanitario Nazionale sa ormai come gestire, se viene messo in condizioni di farlo) ed ancora un certo numero di morti, ma con dimensioni sempre minori, innanzitutto per la presenza di un’alta percentuale di persone vaccinate tra le fasce a rischio, ma anche per un naturale effetto di mitigazione che si sarebbe verificato comunque anche senza vaccino, dal momento che è ipotizzabile – come accade in genere per i virus – il progressivo adattamento e la conseguente endemizzazione di SARS-CoV-2 nella popolazione. Ma intanto noi continueremo a cercare i positivi e a combattere il virus, senza curarci dei danni che questa inutile, dissennata ossessione continuerà a provocare nella società e senza alcuna possibilità di uscire da uno stato di emergenza che effettivamente non c’è mai stato davvero, se non nella prima parte del mese di marzo dello scorso anno e solo in alcune specifiche zone del paese, ma che ci accompagnerà ancora a lungo.

Ma questo solo secondo me, ignorante uomo della strada…


ARCHIVIO delle vecchie versioni dei dati.


  1. SARS-CoV-2 è il nome del virus, COVID-19 è il nome della malattia che provoca. Sembra una banalità, ma già aver chiara questa distinzione non è cosa da poco. []
  2. A grandi linee, il tampone è un test che ci dice se il virus è presente in quel momento, il test sierologico ci dice invece se il virus c’è stato. []
  3. Si veda la dashboard dell’ISS, se si vuole una conferma []
  4. A tale proposito, si consulti il Sistema nazionale di sorveglianza della mortalità giornaliera (SiSMG) che, sin dal 2004, evidenzia come l’andamento dei decessi risenta dell’andamento stagionale e, segnatamente, degli effetti delle epidemie influenzali che annualmente occorrono nella stagione fredda. []
  5. A riprova di questo incredibile atteggiamento “passivo” della gente verso i numeri porto un’ulteriore esempio, a partire sempre dal grafico 1: anche il tasso di positività (positivi su tamponi, linea azzurra del grafico) sbandierato da settembre ’20 in poi dai giornali è letto da tutti senza pensare (è tanto? è poco? rispetto a cosa?), è solo un numero a cui l’infografica di turno alla tv cerca di dare enfasi. Tuttavia questo numero non è mai andato oltre il 17% (picco della seconda ondata, nel novembre ’20): a qualcuno è venuto in mente che, se noi andiamo attivamente a cercare i positivi tra gente che è stata sicuramente esposta al contagio, ma nonostante questo, nel periodo di maggior diffusione del virus, ne troviamo solo 17 su 100 (ma in genere molti di meno, come si vede dal grafico) non siamo poi di fronte a tutto questo granché di diffusione violenta? Ecco quindi che, al pari del numero assoluto dei contagi, anche il tasso di positività è diventato solo un numero magico… []
  6. I risultati definitivi sono stati pubblicati, nel silenzio di istituzioni e media, solo ad aprile 2021. Ma tanto nessuno ne ha mai tenuto conto, neanche quando erano dati freschi ed utili, figuriamoci un anno dopo… []
  7. Anche la campagna di indagine sierologica sugli operatori della scuola, svoltasi a settembre 2020 in previsione della partenza dell’anno scolastico (500.000 testati , con 13.000 positivi), pur non essendo di tipo campionario – e mancando in particolare i più “contagiati” cioè i minori di 20 anni, e gli anziani over 65 – conferma sostanzialmente la percentuale di positività rilevata dall’indagine ISTAT []
  8. La confrontabilità dei due dati non è inficiata dalla differenza delle due rilevazioni – indagine sierologica per quella l’ISTAT, tampone per l’altra – in quanto per quest’ultima si considera il dato cumulativo alla stessa data del 15/7. La differenza metodologica nella rilevazione è quindi praticamente irrilevante. []
  9. Ciò conferma anche quanto scoperto con uno studio (che dicono “in via di pubblicazione”, ma non ho trovato altra traccia se non notizie sui media) dell’Istituto Superiore di Sanità realizzato attraverso l’analisi di acque di scarico raccolte in tempi antecedenti al manifestarsi della COVID-19 in Italia, e cioè che, nelle acque di scarico di Milano e Torino, c’erano già tracce del virus SARS-CoV-2 a dicembre 2019. []
  10. Si noti anche che questo sospetto era già stato avanzato ai primi di maggio (ben prima dell’indagine ISTAT) da un documento di OMS Europa (di cui riparleremo diffusamente più avanti, alla domanda 5) stranamente pubblicato ma poi subito ritirato “I casi confermati erano solo la punta dell’iceberg. Il test di per sé produce una percentuale significativa di falsi negativi. Le persone che erano asintomatiche (precisamente quante non erano chiare alla fine di aprile) probabilmente non sarebbero mai state testate. Anche molti pazienti sintomatici non sono stati testati, in particolare all’inizio dell’epidemia, quando i test erano scarsi. Alcuni, non è ancora chiaro quanti, che sono risultati positivi al virus COVID-19, non hanno mai sviluppato alcuna malattia significativa.” []
  11. Ad esempio, appare abbastanza singolare che, il giorno 11/8/20, Ministero della Salute e ISS licenziassero un documento importantissimo (“Elementi di preparazione e risposta a COVID-19 nella stagione autunno-invernale“) che partiva dalla premessa (riportata al punto 1.1) di un tasso di letalità complessiva del 13,9% (che abbiamo già visto palesemente errato) quando già dal 3/8 era disponibile il pre-rapporto dell’ISTAT sull’indagine sierologica che permetteva di stimare in maniera molto più verosimile il tasso di letalità al 2,36%. Eppure, come già detto, ancora oggi nelle infografiche giornaliere dell’ISS e della Protezione Civile non vi è traccia del dato ISTAT, così come esso era e rimane sostanzialmente assente anche dai documenti di pianificazione, come ad esempio nel piano “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” del 20/10/20, preludio ad un inverno 20-21 pieno di restrizioni, molte delle quali assurde. []
  12. Per la cronaca, in Lombardia, la regione più duramente colpita dal COVID-19 ed in cui erano presenti più della metà dei contagiati italiani, il tasso di letalità risultava del 2,2%, addirittura più basso della media nazionale. Si noti che questi tassi sono calcolati sul numero dei morti complessivi al 15/7, data in cui si è conclusa l’indagine ISTAT, iniziata il 25/5, e che alla stessa data il tasso di letalità secondo ISS era del 17,6% in Lombardia e, come detto, del 14,4% a livello nazionale. []
  13. I più sensati – e onesti – lo facevano già da tempo, ovviamente non nelle istituzioni e sui media mainstream: si veda questo interessante articolo de Le Scienze del 13/05/20, dove si tenta un’analisi diversa rispetto ai dati bruti che, negli stessi giorni, la Protezione Civile ammanniva ai disorientati cittadini con i suoi bollettini di guerra giornalieri. Non che le conclusioni fossero così probanti, né esatte – ne riconoscono i limiti gli stessi autori – ma testimoniano che “la scienza” a cui ci appelliamo con tanto desiderio di salvezza, non ha in mano le risposte univoche che gli esperti-divi della TV ci promettono… []
  14. Dice ISS nel rapporto del 21/07, l’ultimo disponibile: “Al 21 luglio 2021 sono 1.479, dei 127.044 (1,2%), i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 355 di questi avevano meno di 40 anni (221 uomini e 134 donne con età compresa tra 0 e 39 anni). Di 105 pazienti di età inferiore a 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche; degli altri, 206 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 44 non avevano patologie di rilievo diagnosticate.” []
  15. Segnalo a questo proposito una iniziativa del sito statistichecoronavirus.it che, a partire dai dati sulle condizioni cliniche ed i fattori di rischio, ha elaborato un “Calcolatore di sopravvivenza Covid-19“: una volta superato l’inevitabile sconcerto, si può verificare empiricamente quanto abbiamo detto finora… []
  16. ISTAT – Istituto Superiore di Sanità, “Impatto dell’epidemia covid-19 sulla mortalità: cause di morte nei deceduti positivi a sars-cov-2”, 16 luglio 2020 []
  17. Infine, sotto il profilo metodologico, il rapporto precisa che “è bene tenere a mente quali sono le caratteristiche di questa fonte di dati [la scheda di morte] per comprendere meglio le informazioni che essa fornisce. Innanzitutto, è importante notare che sulla scheda di morte sono riportate le condizioni che hanno avuto un ruolo nel determinare il decesso (sono cause di morte), quindi non sono necessariamente riportate tutte le malattie di cui il deceduto era affetto. Inoltre, la certificazione deve avvenire entro 24 ore dall’evento e il medico deve compilare la scheda secondo scienza e coscienza sulla base delle informazioni possedute al momento della compilazione. È quindi possibile che alcune informazioni rilevanti o dettagli utili a migliorare la specificità delle cause riportate non siano note al certificatore al momento della compilazione” (ed è possibile, aggiungerei, che il medico cui è appena morto un paziente possa orientare il contenuto della scheda in un modo più “difensivo”, specialmente in momenti eccezionalmente difficili come questi). Pertanto, fenomeni di distorsione sistematica dei dati possono, in questo caso, essere verosimilmente presenti. []
  18. Non è una boutade, a ben guardare c’è più di un indizio a suggerire questa ipotesi; anche gli stessi studi sulla mortalità precisano che, essendo il requisito della corretta attribuzione delle cause di morte presupposto fondante qualunque ragionamento, si tratta di una potenziale criticità (cfr. nota 18). []
  19. Va qui ricordato che l’indagine sui sintomi effettuata dall’ISTAT e sintetizzata nel grafico si basa su un’autodichiarazione delle persone intervistate e non su una valutazione dello stato clinico declinato secondo quanto fa l’ISS, pertanto non è possibile confrontare le gravità delle condizioni dei pazienti nelle due diverse rilevazioni. []
  20. Qualcuno esperto di statistica potrebbe obiettare che la tabella qui sopra sia costruita in modo arbitrario. In senso stretto avrebbe ragione: l’ho costruita io sulla base dei dati ISS, applicando le stesse percentuali rilevate sulle 434.000 cartelle cliniche censite (dato tecnicamente classificato come “Numero totale casi con malattia ancora in corso e con esito finale ancora non definito dall’inizio dell’epidemia, differenziati per sintomatologia più recente, per sesso e per fascia d’età aggiornati alla data riportata”) al totale dei casi rilevati fino alla stessa data, quindi è in effetti una forzatura. Tuttavia, dato l’alto numero del “campione”, ho considerato il risultato ottenuto abbastanza verosimile, se pure non statisticamente esatto; in statistica l’esattezza è importante, me ne rendo conto, ma anche un’approssimazione verosimile non è da disprezzare, in mancanza d’altro. A mia parziale discolpa porto due elementi: il primo è che lo stesso ISS presenta il dato col grafico 9 di cui sopra nella sezione “Dati cumulativi” della dashboard (quindi fa esattamente come me); il secondo è che, dopo molti mesi, il 17/8/21 ho rifatto la stessa operazione con i dati aggiornati ed il risultato non è molto diverso… []
  21. Mi vergogno di proporre questa tabella perché si tratta davvero di conti arbitrari, perciò la metto solo in nota, però se ricalibrassimo i dati riguardanti lo stato clinico e la letalità su un numero più plausibile di contagiati totali da inizio pandemia – ad es. i 20 mln. che si potrebbero ipotizzare come più coerenti con i risultati dell’indagine di sieroprevalenza ISTAT – e tenendo ovviamente fermi i dati relativi agli stati clinici severo e critico ed ai morti (che sono numeri certi), avremmo la situazione che segue:

    Tabella 9c

    Prendiamoli con le pinze, per carità (ci sono molti elementi di potenziale distorsione, anche grave), ma questi conti, pur del tutto arbitrari, qualche considerazione la suggeriscono… []

  22. Rapporto ISTAT “Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente nel primo quadrimestre 2020” – 4 giugno 2020 []
  23. Come detto, si tratta solo di una mia ipotesi, che tuttavia ritengo abbastanza fondata, anche alla luce di alcuni studi (limitati, ma significativi) come quello pubblicato sul New England Journal of Medicine (“Reduced Rate of Hospital Admissions for ACS during Covid-19 Outbreak in Northern Italy” del 28/4/20) citato da La Repubblica – Edizione di Torino del 7/6/20 o quello della Società Italiana Emergenza Sanitaria (“Covid 19 e Sistema 118: prime comparazioni tra i dati di attività a Milano, Genova, Roma e Bari” del 19/5/20) citato ne La Repubblica – Edizione di Genova del 7/6/20. Inoltre, a documentare il clima di tensione che ha presumibilmente scoraggiato molti dal recarsi in ospedale pur avendone grave bisogno, vi sono decine di articoli apparsi sulla stampa, spesso con titoli “forti” che fuorviavano dai contenuti effettivi (alcuni esempi, a caso: da Gazzetta di Mantova, Il Giorno, Ansa, MilanoToday), clima che non si è spento neanche dopo il lockdown (un esempio è questo articolo su RavennaNotizie). Ma anche la comunicazione istituzionale non ha brillato per chiarezza (anche qui, giusto per fare un esempio, si veda il Comunicato della Protezione Civile del 22/2, decisamente angosciante nella sua recisione). []
  24. Lo studio è apparso su SCIRE – Scienza In Rete, a firma di E. Bucci, L. Leuzzi, E. Marinari, G. Parisi, F. Ricci Tersenghi, il 22/4/20, con il titolo: “Verso una stima di morti dirette e indirette per Covid“. Dell’argomento parla anche il documento di OMS Europa dal titolo “An unprecedented challenge – Italy’s first response to COVID-19” (di cui parleremo più avanti), fornendo però un’interpretazione diversa: “Una visione più esauriente del bilancio reale dell’epidemia viene dal confronto tra la mortalità totale nei mesi dell’epidemia e la mortalità attesa negli anni precedenti. [I dati mostrano] come la mortalità abbia notevolmente superato gli intervalli abituali attesi, in particolare al nord. L’eccessiva mortalità per tutte le cause ha dipinto un quadro molto più drammatico dell’impatto dell’epidemia rispetto al numero di morti ospedaliere di persone con infezione COVID-19 confermata in laboratorio”. Segnalo, infine, questo articolo uscito il 21/12/20 sempre su SCIRE – Scienza in Rete, a firma di di P. Michelozzi, F. De’ Donato, M. Scortichini, M. De Sario, F. Noccioli, M. Davoli, con il titolo “Nel 2020 in Italia un eccesso di mortalità totale senza precedenti dal dopoguerra“, di estremo interesse. []
  25. Ad es. nei primi 8 mesi di emergenza, il governo ha licenziato protocolli operativi per qualunque cosa, ma fino al 30/11/20 non esisteva ancora alcun protocollo di cura da applicare sul territorio da parte dei medici di famiglia, mentre la situazione di questo indispensabile presidio per la salute dei cittadini era drammatica e surreale, come testimoniava questo articolo su Repubblica del 21/10. Anche le famose USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) non hanno avuto l’impatto sperato, un po’ perché utilizzate soprattutto per il solito tracciamento, un po’ per carenze organizzative, come segnalato ad es. in questo articolo sul Fatto Quotidiano del 21/10. []
  26. A questo proposito segnalo l’intervista, pubblicata sul Libero del 24/10/20, al Prof. Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive dell’Ospedale San Martino di Genova: l’intervista originale non l’ho trovata, ma se ne può leggere una breve sintesi qui. []
  27. Sull’argomento segnalo l’interessante, ancorché complesso studio di Pier Paolo Lunelli, ex generale dell’Esercito, già responsabile della Scuola Interforze per la Difesa NBC, che è un “racconto di ciò che noi non avevamo, ma che eravamo tenuti ad avere come obbligo giuridico, e che altri avevano: un sistema efficace di sorveglianza sanitaria integrata e piani pandemici armonizzati a livello centrale, regionale e di comunità locale”, come dice lo stesso autore; suggerisco di leggere almeno le Conclusioni, che sono illuminanti. Ricordo che sulla questione di come è stato affrontata la pandemia in Italia c’è anche il famoso documento di OMS Europa, prima pubblicato e poi subito ritirato (e ancora oggi difficilmente reperibile), dal titolo “An unprecedented challenge – Italy’s first response to COVID-19” – io l’ho trovato sul sito del Giornale di Brescia; se ne parla diffusamente anche nella trasmissione di Rai3 Report del 2/11, se interessa. []
  28. Sul tema segnalo un articolo apparso su DoppioZero a firma di F. Guala (“La guerra al Covid e la guerra ai giovani“), ma anche uno studio di C. Favero, A. Ichino e A. Rustichini (“Restarting the Economy While Saving Lives Under COVID-19“) sintetizzato in due articoli su Il Foglio (“Si può tornare a scuola dividendo gli insegnanti (non gli alunni)“) e su LaVoce.Info (“Separare giovani ed anziani per scongiurare il lockdown“); si noti che la prima versione dello studio risale ad aprile ‘20 ed il primo dei due articoli all’8/5/20. []
  29. A questo proposito segnalo la ricerca Lockdown fatigue: The diminishing effects of quarantines on the spread of COVID-19 a cura di Patricio Goldstein, Eduardo Levy Yeyati e Luca Sartorio, pubblicata su Covid Economics, Vetted and Real-Time Papers, una pubblicazione del Centre For Economic Policy Research, che, analizzando le stragegie di lockdown ed i loro risultati in 152 paesi, suggerisce che “le restrizioni applicate per un lungo periodo o reintrodotte alla fine della pandemia (ad esempio, in caso di recrudescenza dei casi) eserciterebbero, nella migliore delle ipotesi, un effetto più debole e attenuato sull’evoluzione dei casi e delle vittime. (…) Nel complesso, concludiamo che le restrizioni hanno svolto un ruolo nelle prime fasi della pandemia, ma hanno avuto un effetto transitorio che sarà difficile da replicare in futuro”. []
  30. Si tratta degli indicatori 1.1, 1.4, 2.1, 2.2, 2.3, 3.1, 3.2, 3.4, 3.6. Per maggiore approfondimento si può consultare la pagina dedicata al monitoraggio nel sito del Ministero della Salute []
  31. Una più semplice illustrazione dell’indice Rt, si può leggere in questo articolo nel sito Sciencecue.it; tuttavia, nonostante la chiarezza della spiegazione, rimangono legittime, secondo me, tutte le perplessità che questo indice – e soprattutto il suo utilizzo per determinare le scelte conseguenti – suscita []
  32. Nella società dell’informazione, siamo evidentemente riusciti a declinare in modo del tutto nuovo ed inedito la famosa intuizione di Rudolf Virchow, celebre patologo tedesco di fine ‘800, propugnatore delle discipline igienistiche e della Medicina Sociale, secondo cui “un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici”… []
  33. Italy has one of the strongest health systems, but when COVID-19 came to its doorstep, it brought this system to near collapse. And this made the world panic.” pag. V []
  34. No, non è che in inglese il termine “panic” abbia un altro significato; il Cambridge Dictionary lo definisce “a sudden strong feeling of fear that prevents reasonable thought and action”, cioè un’improvvisa forte sensazione di paura che impedisce il pensiero e l’azione ragionevoli. []
  35. Nel file ci sono i filtri automatici che permettono di ordinare le varie colonne; ho inoltre messo dei colori (comunque eliminabili, se disturbano) per poter evidenziare a colpo d’occhio i valori più elevati e più bassi, nonché eventuali connessioni tra le diverse categorie di dati. I files sono per Excel versioni recenti (versione da 2004 in su, estensione .xlsx) oppure per Excel vecchie versioni (da ’98 a 2003, estensione .xls). []
  36. L’indice è così descritto dalla piattaforma: “raccoglie informazioni pubblicamente disponibili sugli indicatori di risposta del governo. Questi indicatori prendono politiche come la chiusura delle scuole, i divieti di viaggio, ecc. e le registrano su scala ordinale (…) [L’indice] misura la variazione nelle risposte dei governi utilizzando il suo ‘COVID-19 Government Response Stringency Index (Stringency Index)’. Questa misura composita è un semplice punteggio additivo di nove indicatori misurati su una scala ordinale, ridimensionata per variare da 0 a 100. Si prega di notare che questa misura è solo a scopo comparativo e non deve essere necessariamente interpretata come una valutazione dell’adeguatezza o dell’efficacia della risposta di un paese. Esso include anche una misura dell’indice “COVID-19 Containment and Health Response” che si basa sulle metriche utilizzate nello “Stringency Index” più la politica sui test, la tracciabilità dei contatti, le mascherine e la politica sui vaccini. La politica specifica e le categorie di risposta sono codificate come segue: Chiusura delle scuole: 0 – Nessuna misura; 1 – Si consiglia la chiusura; 2 – Obbligo di chiusura (solo alcuni livelli o categorie, ad es. solo liceo o solo scuole pubbliche); 3 – Obbligo di chiusura di tutti i livelli. Chiusura dei posti di lavoro: 0 – Nessuna misura; 1 – Si consiglia di chiudere (o lavorare da casa); 2 – Obbligo di chiusura (o lavorare da casa) per alcuni settori o categorie di lavoratori; 3 – Obbligo di chiusura (o di lavoro da casa) di tutti i luoghi di lavoro tranne quelli essenziali (es. negozi di alimentari, medici). Annullamento di eventi pubblici: 0- Nessuna misura; 1 – Si consiglia la cancellazione; 2 – Obbligo di cancellazione. Restrizioni agli assembramenti: 0 – Nessuna restrizione; 1 – Restrizioni su assembramenti molto grandi (il limite è superiore a 1000 persone); 2 – Restrizioni agli assembramenti tra 100-1000 persone; 3 – Restrizioni agli assembramenti tra 10-100 persone; 4 – Restrizioni su assembramenti di meno di 10 persone. Trasporti pubblici chiusi: 0 – Nessuna misura; 1 – Si consiglia la chiusura (o di ridurre significativamente volume/percorso/mezzo di trasporto a disposizione); 2 – Obbligo di chiusura (o divieto alla maggior parte dei cittadini di utilizzarlo). Campagne di informazione pubblica: 0 – Nessuna campagna di informazione pubblica sul COVID-19; 1 – I funzionari pubblici esortano alla cautela su COVID-19; 2 – Campagna di informazione pubblica coordinata (ad es. attraverso i media tradizionali e i social). Resta a casa: 0 – Nessuna misura; 1 – Si consiglia di non uscire di casa; 2 – Obbligo di non uscire di casa con eccezioni per l’esercizio quotidiano, la spesa e i viaggi “essenziali”; 3 – Obbligo di non uscire di casa con eccezioni minime (es. permesso di uscire solo una volta ogni pochi giorni, o può uscire solo una persona alla volta, ecc.). Restrizioni agli spostamenti interni: 0 – Nessuna misura; 1 – Si consiglia la limitazione degli spostamnti; 2 – Limitazione degli spostamenti. Controlli sui viaggi internazionali: 0 – Nessuna misura; 1 – Screening all’ingresso; 2 – Quarantena per gli arrivi da regioni ad alto rischio; 3 – Divieto di ingresso da regioni ad alto rischio; 4 – Chiusura totale delle frontiere. Politica di test: 0 – Nessuna politica di test; 1 – Test solo per coloro che hanno sintomi E soddisfano criteri specifici (es. operatori chiave, ricoverati in ospedale, entrati in contatto con un caso noto, tornati dall’estero); 2 – Test su chiunque mostri sintomi di COVID-19; 3 – Test pubblici aperti (es. test “drive through” disponibili per le persone asintomatiche). Tracciamento del contratto: 0 – Nessun tracciamento dei contatti; 1 – Tracciamento dei contatti limitato o non eseguito per tutti i casi; 2 – Tracciamento completo dei contatti, fatto per tutti i casi. Copertura del viso [mascherina]: 0 – Nessuna politica; 1 – Consigliata; 2- Richiesta in alcuni specifici spazi condivisi/pubblici fuori casa con altre persone presenti, o alcune situazioni in cui il distanziamento sociale non è possibile; 3 – Richiesta in tutti gli spazi condivisi/pubblici fuori casa con altre persone presenti o in tutte le situazioni in cui il distanziamento sociale non è possibile; 4 – Obbligatoria fuori casa in ogni momento, indipendentemente dalla posizione o dalla presenza di altre persone. Politica di vaccinazione: 0 – Nessuna disponibilità; 1 – Disponibilità per UNO dei seguenti gruppi: lavoratori chiave, soggetti clinicamente vulnerabili, anziani; 2 – Disponibilità per DUE dei seguenti gruppi: lavoratori chiave, soggetti clinicamente vulnerabili, anziani; 3 – Disponibilità per TUTTI i seguenti gruppi: lavoratori chiave, soggetti clinicamente vulnerabili, anziani; 4 – Disponibilità per tutti e tre più disponibilità aggiuntiva parziale (per selezionati grandi gruppi o età); 5 – Disponibilità universale.” []
  37. Chi avesse la curiosità di conoscere i “conti della serva” fatti sull’argomento può scaricare questa tabellina stupida. []
  38. Per una disamina approfondita di questo grafico consiglio la lettura del documento da cui è tratto, alle pagine 83-85 []
  39. Non è esatto dire che in Italia, dopo la prima onda, non si sia pianificato. Infatti, ad ottobre 2020, Ministero della Salute e ISS hanno pubblicato il documento “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” che è in effetti una sorta di piano pandemico. Il problema è che è arrivato tardi e, per quanto ne posso capire, è rimasto comunque largamente inattuato []